Voyeurismo di guerra e ambivalenza mediatica

Solo chi la vive sul proprio corpo e nella propria anima, può fare esperienza reale della guerra, ovvero può avere “esperienza diretta del Reale in quanto opposto alla realtà sociale quotidiana”

Un’esperienza desertificante, fatta di boati assordanti, dell’incendio e del crollo della propria casa, dell’odore e la vista del sangue di corpi feriti o ammazzati, della fame e della sete, di quel terrore primordiale che venendo prima di qualunque ragione può consegnarci a una follia senza ritorno, della sospensione delle abitudini di vita, della disintegrazione del paesaggio interno ed esterno e della costante sofferenza, legata a una condizione di inermità assoluta e d’incapacità di vedersi proiettati verso un qualsivoglia futuro, inchiodati come si è all’orrore del presente, nel quale spira incontrastato l’alito della morte. Chi invece la osserva al riparo di uno schermo televisivo, come noi, ne può fare tuttalpiù un’esperienza mentale, emotiva, spettacolare ed estetica, avendo sempre ben presente che nessun proiettile potrà colpirci, che nessuna bomba potrà far saltare in aria la nostra casa, che la nostra vita non è in pericolo e che dunque non saremo mai coinvolti realmente in quegli eventi. Davanti ad uno schermo non possiamo fare alcuna esperienza reale, perché quest’ultima è possibile sempre e solo in un preciso punto (punctum), nello spazio e nel tempo, e non attraverso una visione ubiquitaria o un tempo reversibile, come quello proprio dei media.

La guerra in Ucraina è senz’altro la guerra più mediatica di sempre, ma questo profluvio ininterrotto d’immagini e parole che dal suo scoppio hanno inondato qualsiasi superficie mediatica, ha fatto si che la massa spettatoriale che siamo diventati dopo decenni di educazione alla società dello “spettacolare integrato” di cui parlava Debord, sia stata assorbita da queste immagini in un continuum emotivo che la rimbalza da un orrore all’altro, spesso senza che possa sviluppare una riflessione profonda su quanto vede sullo schermo. 

Le immagini degli orrori della guerra hanno invaso le nostre case, suscitando ondate di commozione generale. Immagini che ci emozionano subitaneamente, ma che allo stesso tempo sono destinate a perdere il loro potenziale emotivo, sostituite in breve da altre di tutt’altro contenuto, senza che le emozioni destate si cristallizzino in un sentimento duraturo in grado di produrre un’azione reale. 

L’obsolescenza accelerata delle immagini proposte dai media, ha due conseguenze: assuefazione e dipendenza. Siamo già assuefatti all’immagine appena vista e in attesa di ricevere quella nuova che i media ci proporranno, alimentando così la nostra dipendenza. L’ininterrotta produzione e riproduzione mediatica di immagini e la loro circolazione e ricombinazione infinita configurano di continuo, però, il tradimento della realtà, attraverso una galleria di volatili simulacri. La conseguenza è che ogni immagine da un lato, come scriveva Baudrillard, sembra  diventare più reale della realtà, più vera del vero, ovvero “iperreale”, ma dall’altro sembra invece portare con sé un alone d’irrealtà e di finzione, piuttosto che di revocabilità. E’ una caratteristica strutturale dei media, che non cancella la realtà in quanto tale, ma che l’assorbe in un cono immaginario, che tende a dissolverne il referente reale. Finzione e realtà si con-fondono, nel flusso continuo di immagini tra pubblicità, notiziari e intrattenimento e tutto assume un diverso statuto ontologico rispetto alla realtà, con esiti de-realizzanti nei confronti di quest’ultima.

Il palinsesto televisivo, nella sua giustapposizione di telegiornali, talk show, serie, film e pubblicità, espone lo spettatore a un caleidoscopio di stimoli frammentari, di percezioni puntuali e discontinue, senza che egli abbia mai alcuna presa su ciò che vede, esonerato com’è dall’agire e dai rischi che esso comporta. Davanti allo schermo televisivo egli può solo voyeuristicamente osservare ciò che accade nel mondo. Del resto, come scrive Mario Pezzella, è improprio chiamare immagine quella che vediamo nello schermo televisivo, in quanto l’immagine propriamente detta porta con sé il ricordo di un passato o la speranza e il desiderio di un futuro e rivela sempre la  presenza assenza di ciò o di colui che è evocato. L’immagine televisiva è in verità un simulacro di una presenza immediata e produce la contemporaneità tra l’oggetto e la sua visione, “l’immagine riaffermava la differenza e la distanza di quanto in essa veniva evocato; il simulacro mi attrae in una identificazione immediata, in cui perdo ogni capacità di riflessione e sono assorbito – per così dire – nell’abbacinante presenza dell’allucinazione”. E il simulacro, da un lato “s’impone con un’autorità apparentemente incontestabile” tale da farlo sembrare, nella verità della sua evidenza, più reale del reale, dall’altro sconta l’irrealtà della sua evanescenza spettrale, attraverso la sua permutabilità infinita. Secondo Baudrillard la fiducia nel reportage fotografico di mobilitare l’opinione pubblica si fonda sull’illusione che “esista una realtà che le immagini ci restituirebbero fedelmente. Crediamo di vedere nella fotografia il riflesso del nostro mondo ma, al contrario, le immagini in tempo reale esorcizzano questo mondo mediante la finzione istantanea della loro rappresentazione – e non mediante la loro rappresentazione. Perché il messaggio si trasmetta, perché l’immagine abbia efficacia sensibile, c’è bisogno di un transfert sull’immagine, e che questo transfert sia perentorio. C’è bisogno, ancora e sempre, di una distanza – ma con i media e il tempo reale ci troviamo nella promiscuità totale”.

Sempre Baudrillard scriveva che nelle società contemporanee si sviluppa una forma di violenza più sottile di “quella dell’aggressione, dell’oppressione, dello stupro, del rapporto di forza, dell’umiliazione, della spoliazione – la violenza unilaterale del più forte, ovvero la violenza dell’informazione, dei media, delle immagini, dello spettacolare. Violenze legate alla trasparenza, alla visibilità totale, alla scomparsa di qualunque segreto”. Una violenza, quella dell’esibizione mediatica di questa guerra, che diventa oscenamente pornografica, nel suo togliere tutti i veli del pudore, lasciando in bella mostra cadaveri e corpi carbonizzati, indagando ed esibendo l’intimità delle persone, continuando a filmare senza posa il dolore e la sofferenza iscrittisi nei corpi e nei volti delle vittime del conflitto, analizzando e vivisezionando ripetutamente tutto ciò che accade. Una pornografia del dolore e dell’orrore, che se da un lato, come scritto sopra, crea dipendenza nello spettatore, alla continua ricerca di quelle immagini, dall’altro lo conduce all’assuefazione, inducendo i media a veicolare immagini via via diverse, in grado di arrivare a sottrarre anche gli ultimi veli, al di là dei quali si dispiega solo un informe orrore muto. E’ a quel punto che lo stesso Reale ritorna, ma nella “forma di un'(altra) apparenza” entro la quale “dovremmo essere capaci di distinguere il nocciolo duro del Reale che siamo in grado di sopportare solo se lo finzionalizziamo”, ovvero lo filtriamo attraverso un ‘immagine.

I media di guerra sollecitano quel voyeurismo morboso e perverso presente nell’essere umano, quello che nel medioevo trovava soddisfazione nelle esecuzioni e nelle torture inflitte nelle pubbliche piazze e che oggi, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, trova di che soddisfarsi ad libitum. Quello stesso che induce alcuni automobilisti a fermarsi per guardare un incidente o un disastro, con il rischio di crearne a loro volta, o che incolla le persone a programmi televisivi conditi da dolore e sofferenza. Ma se è vero che siamo diventati voyeur di guerra, questo significa che non faremo mai nulla per fermarla, perché il voyeur non partecipa mai all’azione che contempla, ma ne gode in modo solitario, rimanendone al di fuori, infatti “il traffico di immagini, anche le più violente, sviluppa un’immensa indifferenza nei confronti del mondo reale”. 

Quello che le immagini di un disastro o di una guerra catturano è quella pulsione scopica, quella jouissance che ci fa “sperimentare cosa siano la ‘compulsione a ripetere’ e il godimento al di là del principio di piacere: si vuole vedere, ancora e ancora, lo stesso tipo di scene ripetute fino alla nausea, e la misteriosa soddisfazione che ne traiamo è godimento allo stato puro”.

La turbolenza delle immagini ci aspira nella sincronia del presente, nascondendo feticisticamente la diacronia della storia e impedendoci di sviluppare una riflessione che necessiterebbe tempi più lunghi di quelli mediatici. La valenza delle immagini mediatiche è eminentemente estetico spettacolare, e in questo senso, poco importa che siano finzioni o immagini reali, perché il medium che le veicola le transustanzia tutte in un registro estetico finzionale: “ogni aspetto della vita quotidiana mi viene proposto in una visione estetizzante, in una sorta di continua e trascendente sublimità. L’immagine più orrida mi chiede comunque una risposta contemplativa, senza possibilità di reazione attiva; l’immagine più seducente mi richiede comunque una distanza ascetica, senza possibilità di sedurre a mia volta […] L’immagine televisiva mi mostra un quasi-presente neutralizzato e cioè solo il suo simulacro devitalizzato”. E’ in parte anche questa la ragione per cui immagini come quella dell’attacco all’ospedale di Mariupol o dell’orrore di Bucha, continuano a dividere l’opinione pubblica, in merito alla loro veridicità. Del resto, gli stessi media sembrano operare attivamente nel rendere sempre più labile il confine tra realtà e finzione, spacciando per immagini reali del conflitto, quelle di un videogioco. I social media a loro volta amplificano tutto ciò, manipolando, decontestualizzando e ricombinando parole e immagini, in un folle patchwork, che erode ulteriormente ogni referente reale.

Questa è anche la guerra dei selfie e delle fake, in cui droni e smartphone pur filmando, anche in tempo reale, ogni più piccolo accadimento, non rendono più certa la realtà che quelle immagini rimandano e questo perché “l’eccessiva prossimità dell’evento e della sua diffusione in tempo reale genera indecidibilità, una virtualità dell’evento stesso che lo spoglia della sua dimensione storica e lo sottrae alla memoria, facendo si che i giudizi di valore non siano più possibili. Siamo ormai e per sempre condannati all’incertezza perpetua sulle immagini. Solo il loro impatto ha importanza, nella misura in cui sono immerse nella guerra. Non c’è neanche più bisogno dei giornalisti embedded, i militari stessi sono immersi nell’immagine – grazie alla digitalizzazione, le immagini sono definitivamente integrate alla guerra. Ormai non la rappresentano più, non implicano più né distanza, né percezione, né giudizio. Non appartengono più all’ordine della rappresentazione né dell’informazione in senso stretto e, di conseguenza, la domanda sulla necessità di produrle, riprodurle, diffonderle, proibirle o anche la questione ‘essenziale’ di sapere se sono vere o false, diventano ‘irrilevanti’”.

L’estetizzazione spettacolare delle immagini, colpisce anche le parole nella misura in cui, immersi nella Babele dell’infosfera mediatica e non essendo più solo semplice corredo delle prime, i significanti spesso fluttuano liberamente, disancorati dai loro significati, arrivando in alcuni casi a generare mostruosità semantiche; immagini e parole si accoppiano e disaccoppiano producendo pastiche surrealiste. All’interno dello spettacolo mediatico post-moderno, assistiamo all’infinita moltiplicazione prospettica dei punti di vista, immersi in un’atmosfera di seduzione e sensazionalismo al cui interno le parole assumono statuto d’immagini.

Parole e immagini trasmesse dai media possono anche avere, all’opposto, un potere performativo in grado di creare effetti di realtà, a partire da eventi completamente inventati, come il falso sbarco dei marziani annunciato nel 1938 da Orson Welles alla radio, che sconvolse migliaia di persone negli Stati Uniti o, più recentemente, la fiction mandata in onda dalla CBS, che raccontava l’invasione della California da parte degli alieni e che, nonostante l’avvertimento che ciò che veniva trasmesso non era reale, ha gettato migliaia di persone nel panico e indotto molte a caricare la propria famiglia in auto per fuggire il più lontano possibile.

Come possa poi accadere un rovesciamento della vita reale in uno spettacolo, risulta evidente dalla singolare elezione a presidente, dell’attore comico Zelensky, candidato di un partito che aveva lo stesso nome della fortunatissima serie televisiva in cui egli interpretava un uomo qualunque, che stanco della corruzione politica che imperversava in Ucraina, veniva inaspettatamente eletto alla massima carica dello stato. La sensazione che Zelensky, una volta eletto presidente, stesse recitando il sequel della sit com di cui era protagonista, con gli sceneggiatori della sua casa di produzione diventati i suoi spin doctor, si è rafforzata con questa guerra, nella quale scenografie e testi recitati nei suoi ubiquitari messaggi video, sembravano spesso quelli di una fiction studiata per coinvolgere un vasto pubblico. Recitando mimeticamente parti diverse a seconda del contesto, l’attore/presidente Zelensky si è dimostrato in grado di volta in volta di toccare le corde più sensibili di ogni festival come di ogni paese, a partire dagli USA, presso il cui parlamento ha paragonato l’invasione ai danni dell’Ucraina, all’attacco subito dagli americani a Pearl Harbour e all’11 settembre. Per continuare al Bundestag con il riferimento alla caduta del muro di Berlino, e alla House of Commons, con una citazione di Winston Churchill. Fino ad arrivare all’esorbitante quanto improvvido confronto alla Knesset tra la situazione del suo paese e la Shoah, che ha provocato una levata di scudi da parte delle autorità israeliane, che hanno disvelato in questo modo, la trama seduttiva e strumentale dei suoi messaggi.

Tornando al tema della violenza mediatica e concludendo, quello che risulta più pericoloso di questa promiscuità tra realtà e finzione, di questo vivere dentro il registro della “postverità”, esposti come siamo alla viralità della violenza delle immagini e al carico tanatologico delle immagini della violenza, emerge quando queste ultime entrano in risonanza con quel principio di morte che da sempre ci abita  e che, quando l’ambiente, virtuale o meno, è saturo di morte, può talvolta innescare un passaggio all’atto. Che è quello che puntualmente accade quando un adolescente, immerso nella Babele contemporanea dei social media, imbraccia un fucile d’assalto e stermina decine di uomini, donne e bambini. L’ambivalenza tra iperreale e irreale di quanto accade all’interno dell’ambiente infosferico mediatico in cui viviamo, rimarrà tale fino a quando non saranno i nostri stessi corpi a venire colpiti da un proiettile, ma forse anche allora, non avremo la certezza di un’esperienza reale, ma solo quella ambivalente e virtuale garantita dallo schermo che abbiamo incorporato in noi stessi e che ha dissolto ogni referente reale, prosciugando il Reale stesso.

S. Žižek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma 2002, p. 11

M. Pezzella, Narcisismo e società dello spettacolo, Manifestolibri, Roma 1996, pp. 37,38

J. Baudrillard, L’agonia del potere, Mimesis, Milano 2008, p. 50

ibidem, pp. 37,38

S. Žižek, op. cit., p. 23

J. Baudrillard, op. cit., p. 39

S. Žižek, op. cit., p. 16

    M. Pezzella, op. cit., p. 36

J. Baudrillard, op. cit., pp. 47,49

V. Codeluppi, Il tramonto della realtà, Carrocci, Roma 2018, p. 33

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