Teatro Argentina. “Questi fantasmi!”, le anime salve di Eduardo De Filippo

ROMA – Eduardo sa rappresentare le fragilità della commedia umana insegnandoci a sorriderne anche quando sembra impossibile. Marco Tullio Giordana porta in scena Questi fantasmi! al Teatro Argentina fino a 6 gennaio 2019 e riporta in vita, grazie alla Compagnia di Teatro di Luca De Filippo – oggi sotto la guida di Carolina Rosi – con delicatezza e passione, alcuni tra i personaggi più rappresentativi dell’opera eduardiana.

La vicenda ruota attorno a un lussuoso appartamento seicentesco che, secondo la leggenda, si dice abitato dal fantasma di un antico cavaliere. Tutti si rifiutano di abitare in una casa infestata, nonostante l’incontestabile eleganza e le innumerevoli stanze. Tutti tranne Pasquale Lojacono ( Gianfelice Imparato ) che vi si trasferisce insieme alla sua bella e giovane consorte ( Carolina Rosi ). Presto si capirà che l’unico fantasma che si aggira fra le stanze della casa ¬ lasciando fiori e soldi nelle tasche ¬ è in realtà l’amante della moglie ( Massimo De Matteo), trasferitosi nello stesso palazzo per poter sfruttare al meglio le assenze del marito.

Il gioco che Eduardo crea in scena svela il meccanismo di finzione e recitazione che scandisce la vita quotidiana. E Imparato gioca, a sua volta, col dubbio di consapevolezza del suo personaggio. Ha compreso davvero Lojacono che i fantasmi in casa sua in realtà non esistono? La risposta – che a tratti appare ovvia – resta invece sospesa fino alla fine. Le finestre chiuse raccontano il cuore di una casa abitata dai fantasmi che ognuno di noi si porta dentro: i rimpianti, le condanne, le bugie raccontate a se stessi per diritto di sopravvivenza.

La Napoli dei panni stesi, della luce che ferisce, delle contraddizioni, ci si mostra da subito, a imposte ancora chiuse. L’intera commedia si svolge in un unico interno: l’ingresso del grande appartamento del Seicento. Dalle porte entrano ed escono i personaggi, i sospetti, i sogni, le attese, le paure. Dai balconi si parla a un misterioso “Professo’” che non vediamo mai, ma di cui quasi ci sembra di udire la voce. Dalle finestre il protagonista si affaccia e canta per mantenere un’apparenza di vita che, all’interno, non esiste. È l’ingresso a cambiare d’aspetto nei tre atti, a seconda di ciò che si agita sulla scena, a immagine di chi effettivamente mette mano e interviene sui personaggi e i loro conflitti, che sia l’autore o l’uomo misterioso che regala mobili per chissà quale tacito accordo.

E le luci ( Gianni Carluccio ) ci regalano le sfumature reali dei muri di casa, le albe e i tramonti, il blu e il grigio della notte e della paura. La luce – durante tutta la messinscena – ha il potere di far trasalire o acquietare. Nasconde e rivela, rimettendosi alla volontà ultima di chi può decidere se vedere o meno ciò che illumina.

I fantasmi ci sono e si manifestano dall’inizio: sono ladri, stupratori, amanti. Del loro passaggio resta il segno: appaiono soldi, fiori, polli arrosto e scompaiono cappelli, galline. Appaiono i capelli bianchi di una giovane donna ( Carmela, sorella del portiere, “anima dannata”, interpretata da Viola Forestiero ) e scompare il senno.

Gianfelice Imparato impasta questo piccolo Lojacono con una naturalezza disarmante, fino a trasportare sulla scena un nonno, un amico, uno zio, qualcuno che ci sembra di riconoscere in un gesto, nel richiamo urlato tra le stanze, nell’inflessione dialettale, nella paura irrazionale di perdere l’amore per amore, fino a sacrificargli l’orgoglio, la propria umanità. “Siamo noi i fantasmi”, gli fa dire De Filippo nell’illuminante dialogo-a solo col professore: anime irrisolte piene di contraddizioni.

Lojacono affronta infine il suo fantasma, lo spettro che più lo perseguita: uno di fronte all’altro, marito e amante, inscenano, fino all’ultimo, la farsa che li ha portati a perdere, tutti. E forse è solo per lui, per questo personaggio vile e senza coraggio che un po’ dispiace. Perché non c’è nessuno, in questa commedia, che sia poi degno di fiducia. Tutti mentono. E chi non mente, cerca, quasi puerilmente, la vendetta.

Eppure si ride, tanto. E quando non si ride, si sorride. Perché in scena va sì la commedia della vita spesa in apparenze e in vergognosi compromessi, ma il gioco di contraddizioni, luci e ombre, rivela la dignità di una vita vissuta, forse male, ma comunque vissuta. Il grido di aiuto, la supplica di parole troppe volte non dette, il desiderio di futuro nonostante i fallimenti, sono, senza alcun dubbio, un inno alla vita, un grido di speranza.

La musica ( Andrea Farri ) assume, durante tutta la messinscena, diverse forme: le note che accompagnano le scene, palesandone l’angoscia, più spesso la leggerezza; la musica raccontata, quella che funge da richiamo e da condanna per la sorella del portiere; la musica cantata per necessità di apparenza, o per proteggersi, per ritrovare il coraggio; la serenata d’amore da cantare all’amata, che sia una donna o il pubblico in sala.

La Compagnia, guidata dalla Rosi e diretta da Giordana, compie il suo piccolo miracolo: vedere in scena qualcosa che ha tutto l’aspetto del quotidiano limita lo straniamento e rende meno diffidenti, più disponibili nei confronti di ciò che viene rappresentato.

Così ci si ritrova, a fine spettacolo, a luci accese, con la sensazione di non aver assistito a una rappresentazione, ma di aver vissuto, in parte, per un po’, uno stralcio di vita che, volenti o nolenti, inevitabilmente ci appartiene.

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