L’arte come mediazione e stimolo sociale

Il caso Piazza dell’Immaginario nelle parole della curatrice Alba Braza

In occasione della visita a Prato, per vedere la Piazza dell’Immaginario, incontriamo la curatrice Alba Braza, particolarmente attenta all’arte pubblica e al tema relazionale.

In collaborazione con Dryphoto arte contemporanea – galleria non profit e spazio di ricerca a Prato – in una piazza pubblica sono stati invitati artisti ad intervenire lasciando un segno che fosse espressione del dialogo aperto con la comunità locale, in una città che nell’ultima decade ha cambiato faccia ed economia, alternando integrazione e conflitti.

La piazza, nucleo centrale di ogni aggregazione urbana, luogo di incontro e scontro, è territorio di mediazione in cui l’arte assume un ruolo centrale.

Quale ruolo nello specifico, Alba? Che cosa è (o avrebbe dovuto essere) nella tua visione Piazza dell’Immaginario?

Quando nel 2014, avevamo iniziato a lavorare al progetto, la nostra è stata come una risposta alle continue richieste degli abitanti del quartiere Macrolotto Zero, che si lamentavano – come si lamentavano le persone che lavorano a Dryphoto – dei numerosi bigliettini con i numeri di telefono attaccati ovunque, della mancanza di cura dello spazio, ovunque degradato, dove non c’era una panchina per sedersi né un luogo di ritrovo, un punto d’incontro fra le diverse culture che abitano il quartiere.

Sinceramente, in quel momento non pensavo di poter realizzare molti degli obiettivi che ci eravamo prefissati e che oggi sono dei ricordi. 

Allora l’obiettivo era uno, creare uno spazio (fisico) per favorire il dialogo e la convivenza fra le persone che abitano il quartiere. Perciò abbiamo seguito tre linee di attuazione: la prima per creare uno spazio dove si possa consegnare quello che Marx definiva interstizio sociale, dove si possano dar vita a situazioni di scambio diverse da quelle imposte dal sistema vigente (soprattutto relazioni che vadano oltre le mere transazioni commerciali);la seconda linea attuativa era diretta a migliorare la percezione del quartiere iniziando dal nostro uso del linguaggio. A parer mio, non va mai sottovalutato il forte potere che ha il linguaggio per creare l’immagine di una situazione. Perciò, abbiamo deciso di non usare piú il nominativo Chinatown – come abbiamo fatto nella prima pubblicazione di Piazza dell’Immaginario – e per il progetto abbiamo scelto un titolo che potesse servire anche come toponimo alternativo. Abbiamo poi rinforziamo questa intenzione del linguaggio intervenendo sullo spazio fisico, pulendo la strada, piantando dei fiori, dipingendo di rosso i muri su cui vi erano i tanto osteggiati bigliettini, collocando panchine, in accordo con il desiderio e le preferenze delle persone che abitano quello spazio, invitando le persone a inviarci un video racconto dal titolo Cosa é per te una piazza e aggiungendo  delle immagini di grande formato, opere di  Gabriele Basilico, Andrea Abati, Bleda y Rosa, Pantani-Surace, R.E.P. Revolutionary Experimental Space, che mostrano diversi modi di vivere e convivere nello spazio pubblico.
Il terzo e ultimo approccio parte dal considerare i conflitti sociali di quel preciso momento e l’alto livello di distruzione dello spazio pubblico –  tanto per la mancanza di cura quanto per gli atti di vandalismo –  e si muove per mettere alla prova ancora il potere dell’arte, dichiarando apertamente che le immagini lì affisse appartengono a collezioni di musei,  investendo il luogo dell’aurea dell’opera d’arte del senso piú Benjaminiamo possibile e trasformando un possibile sfregio ad un muro in un atto di iconoclastia.Per condurre tutte le persone a “quest’aurea”, abbiamo utilizzato diversi canali di comunicazione: libri con schede didascaliche legati alle panchine, usato i monitor di alcuni dei negozi vicini alla piazza (perlopiù gli schermi che i supermercati di origine orientale pongono al loro esterno e usano per le pubblicità, offerte di lavoro, notizie…), ci siamo appropriati di segnali stradali in disuso e collocato QR code per accedere a video e testi esplicativi. Ovviamente abbiamo utilizzato sempre la lingua italiana e il cinese. 

Prato, storicamente città di produzione di tessuti, è caratterizzata da una grandissima comunità cinese che è notoriamente chiusa. Come vi siete relazionati con i pratesi e i nuovi cittadini? Che tipo di lavoro avete condotto in questo senso?

Le relazione umane sono complesse di per sé, in ogni caso penso che la mia storia personale sia stata  un vantaggio per il progetto. Sono spagnola e abito a Valencia, ma ho vissuto a Prato per quasi 5 anni e oramai ho un rapporto con la città e con Dryphoto da dieci anni, da prima della crisi economica. Questo mi ha permesso conoscere bene la cultura italiana e la situazione dei nuovi cittadini pratesi. Allo stesso tempo, i nuovi cittadini sentono che anch’io sono quasi una nuova cittadina italiana, che quindi in certo modo mi percepiscono come vicina a loro.

Piano piano abbiamo creato una nostra metodologia di lavoro sempre basata sull’idea di ipotesi, idea che è un modo di fare tanto di Vittoria Ciolini, direttore di Dryphoto, quanto mio. Abbiamo considerato sempre l’alta possibilità di sbaglio per la difficoltà e la responsabilità di lavorare nello spazio pubblico. Per ciò abbiamo mescolato e invertito tutti i nostri ruoli, abbiamo lavorato sempre come un’unica persona. Il consenso ci viene facile fra di noi, ma l’ascolto alle persone che abitano il quartiere, i commercianti, i passanti ha assunto e sempre assume un ruolo principale e anche decisivo. 

Allo stesso tempo abbiamo prestato una particolare attenzione alla letteratura che in qualche modo racconta le storie delle Chinatown nel mondo e in particolare le storie riferite a Prato (parliamo di scrittori come Edoardo Nesi e Giorgio Bernardini per esempio). Ci siamo anche riferiti a scrittori di origine cinese che scrivono in lingua italiana (Marco Wong e gli studi condotti da Valentina Pedone), guardando all’immaginario creato dalla scrittura creativa come se si trattasse di realtà.  Ovviamente non possiamo dimenticare che quando parliamo dell’immaginario di un luogo, di una situazione, ci stiamo muovendo nel campo della soggettività 

Siamo giunti alla terza edizione del progetto. Come è cambiata la piazza in questi anni e il vostro lavoro?

Oggi, tre anni dopo, posso confermare che l’arte ha il potere di trasformare e mediare situazioni di alta complessità come è l’integrazione fra due (o più) culture. Si continua a parlare della situazione del quartiere, ma è cambiata tanto. Grazie a Piazza dell’Immaginario ci sono ora “due piazze” vive che permettono un modello di convivenza proprio ed è stato possibile raccontare il quartiere in modo diverso nel quale persone di diverse provenienze abitano fra delle immagini di opere di artisti come Francis Alÿs, Olivo Barbieri, Bianco-Valente, Pantani-Surace, Bert Theis, Gabriele Basilico, Andrea Abati, Bleda y Rosa, Pantani-Surace, R.E.P. Revolutionary Experimental Space che sono lì come il primo giorno, nessuna di queste è stata toccata. E’ un quartiere magico dove una delle piazze è stata “disegnata” dalle persone che ogni giorno la abitano (sono stati i negozianti e i venditori ambulanti a decidere)   e l’altra da un gruppo di giovani architetti (Chí-na) che hanno fatto un lavoro splendido.

In Piazza dell’Immaginario si svolgono concerti, cinema, interventi di altri artisti, concentrazioni di  ogni genere di manifestazione pubblica. La piazza, come qualsiasi piazza, è pubblica e deve avere una vita autonoma, altrimenti qualcosa non funzionerebbe bene. 

Tutto questo non vuol dire che il percorso sia stato semplice né che abbiamo chiaro quale sarà il futuro della Piazza. 

Il progetto evidenzia una idea di arte come motore sociale. In quali termini ritieni che l’arte possa o debba svolgere un ruolo attivo nella società? Non ho mai creduto nelle risposte dell’arte…nelle facilitazioni magari, nelle assunzioni di responsabilità dell’arte, nel suo ruolo di attivatore sociale… qual è la tua idea, anche a fronte di questa esperienza?

Ritengo che l’arte contemporanea abbia il grande potenziale di generare situazioni che nient’altro oggi sia in grado di creare. Chiaramente non intendo dire che tutte le opere, mostre, festival, biennali possano o pretendano farlo, ma se si concentra l’attenzione tanto sul processo creativo, quanto sulla metodologia e non solo sul risultato, aumenta la capacità di apprezzare le situazioni magiche che si possono creare nell’arte attuale. E’ complicato stabilire una unità di misura “oggettiva” per valutare in che grado si incide a livello sociale, ma non è impossibile. 

Nella prima edizione di Piazza dell’Immaginario c’è stato un preciso momento in cui ho percepito che tutto aveva un senso, che tutto lo sforzo che inizialmente sembrava buttarci in un pozzo vuoto in realtà valeva la pena.

Il giorno dell’inaugurazione abbiamo invitato a far merenda proprio tutti, tutte le persone che avevano negozi e supermercati nella zona, tutti orientali. La mia intenzione è che si sentissero partecipi, non solo presenti, e così ho lasciato aperta la possibilità che contribuissero alla merenda, Un catering in questo caso sarebbe stato incoerente con la filosofia del progetto. 

Sebbene tutti, per un motivo o un altro, declinarono l’invito, un giorno alla fine ci hanno raggiunto portando i loro tipici dolci o piatti salati. Ci spiegarono ogni piatto e che non era possibile inaugurare una piazza senza il classico taglio del nastro rosso. Ci abbracciamo, li abbracciammo piangendo e con sguardi assai esplicativi. Questi abbracci fanno capire, in pochi istanti, che l’arte ha avuto un senso. 

Alba Braza (Valencia 1980) è curatrice di mostre e coordinatrice di programmi culturali e di mediazione artistica sviluppati con la società Culturama di Valencia.

Conduce il suo lavoro tra la Spagna e l’Italia, specializzandosi in progetti di intervento nello spazio pubblico come Piazza dell’Immaginario, la Biennal de Mislata Miquel Navarro, del Ayuntamiento de Mislata e la Mostra art públic / universitat pública de la Universitat de València.

Tra le mostre da lei curate si segnalano quelle presso La Gallera, il Consorcio de Museos de la Comunidad Valenciana, il Centre Cultural La Nau de la Universitat de València, Espacio Trapézio (Madrid), Museo Casa Masaccio (Arezzo), Officina Giovani Cantieri Culturali Ex Macelli y Spazio Vault (Prato) o Teatro Studio Scandicci (Firenze).  

Laureata in Storia dell’Arte presso l’Università di Valencia (Spagna), ha seguito corsi di specializzazione in Museologia, Museografia e Conservazione dei Musei presso l’Università Politecnica di Valencia e ha conseguito un Master in Gestione e Analisi dell’Arte Attuale all’Università di Barcellona. In Italia ha anche lavorato come Assistente del direttore della Galleria Continua di San Gimignano.

Foto Andrea Abati

 

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