ROMA – L’anno che sta concludendosi si è caratterizzato, lo sappiamo, dallo sforzo di riprendere in mano la nostra vita e il nostro futuro, lo stiamo ancora facendo tutti – usciti solo apparentemente dalla pandemia –, lo fanno i popoli in guerra e i cittadini in lotta.
Nel ricordare e appoggiare in particolare le donne iraniane, scegliamo simbolicamente di fare il nostro consueto punto sulla Biennale di Venezia proprio oggi, perché questa edizione ci è parsa un significativo tentativo di proporre un corridoio tra ieri e domani, con una forte attenzione alle questioni di genere. Come oramai da tradizione per Speech Art, abbiamo affidato allo sguardo di quattro visitatori speciali la lettura critica della mostra, quest’anno ponendo lo stesso quesito alla curatrice Benedetta Carpi De Resmini, alla ricercatrice e gallerista Gabriela Galati (Ipercubo, Milano), all’artista Gea Casolaro, e al direttore del museo MAMBO di Bologna, Lorenzo Balbi.
Come dicevamo, La Biennale 2022 è stato il tentativo di riflettere sulla contemporaneità e il futuro, assumendo le questioni del postumano in relazione con le espressioni fantastiche di Leonora Carrington. Immaginazione e inconscio hanno incontrato realtà e corporeo in un via vai temporale che, però, nel progetto proposto sembrava sempre porre al centro l’uomo e le sue metamorfosi fisiche, identitarie e sociali pur nel tentativo di affrontarne il superamento. Come se effettivamente il ‘900 non fosse ancora del tutto superabile. Qual è la tua lettura del pensiero di Cecilia Alemani? Quale panorama artistico, culturale e sociale ci rimanda questa edizione della Biennale di Venezia?
La mostra curata da Cecilia Alemani è stata realizzata in un periodo storico cruciale per la nostra specie che vede una trasformazione biologica e culturale, epocale. Lo scenario della pandemia ha rappresentato un’occasione di riflessione per iniziare a costruire una rivoluzione in ogni ambito della nostra esistenza, la questione che emerge ora è che questo cambiamento si ferma soltanto alle ipotesi.
Parlare di postumano significa allontanarsi dal XX secolo e soprattutto allontanarsi dall’antropocentrismo che ha dominato fino ad ora la nostra esistenza. Per farlo però bisogna fratturare i bordi e i confini. Ma come se il soggetto principale siamo sempre noi?
La tesi proposta da Cecilia Alemani è sicuramente interessante e la problematica che tu giustamente rilevi però è legata al fatto che la curatrice sembra sia voluta partire da una prospettiva storica e soprattutto dal potere onirico delle immagini stesse, senza però credo, voler proporre un superamento dell’Antropocene ma cercando di ammorbidirne la visione. Una nostra riflessione dovrebbe partire proprio da qua, da quello che Donna Haraway ci suggerisce, arrivando a creare una nuova alleanza con nuove forme di vita. Quello che lei stessa chiama “Chthulucene”. Forse la migliore risposta, a come allontanarsi da un pensiero antropico, è probabilmente data da un’alleanza tra le diverse discipline. Dovremmo mettere in discussione la stanzialità di noi esseri umani, creando nuove visioni, nuove forme di contaminazione tra esseri viventi.
Ritengo che gli architetti più di altri possano intuire il nostro futuro, perché è insito nel loro mestiere rapportarsi allo spazio, allo studio di nuove pratiche di interazione tra popolazioni, realtà e vite differenti. L’architettura, potrebbe definirsi ipotesi di vita associata che solo grazie a una forma di unione tra il nomadismo e l’onirico, si arriva ad un nuovo spazio di convivenza tra specie. Vorrei chiudere questa mia riflessione citando un architetto – artista Francesco Careri: “Progettare una città nomade sembrerebbe una contraddizione in termini…: Forse (bisognerebbe ndr) trasformarla ludicamente dal suo interno, modificarla durante il viaggio, ridare vita alla primitiva attitudine al gioco delle relazioni che aveva permesso ad Abele di abitare il mondo. Benedetta Carpi De Resmini, curatrice
Curare un evento tanto vasto come una Biennale è spesso problematico e, si potrebbe aggiungere, criticarla ha sempre un sapore di ingiustizia, perché è ovvio quanto sia difficile equilibrare un evento che deve sia arrivare al grande pubblico sia allo stesso tempo mantenere una coerenza e una profondità teorico-concettuale. Il problema principale di questa Biennale è che la curatrice ha cercato appunto attraverso le opere esposte di “illustrare”, in un modo piuttosto didascalico e semplicistico, la complessa ed eterogenea filosofia del postumano, i suoi principali temi di decontrazione e discussione, invece di sviluppare una strategia curatoriale che fosse postumana in sé, e che in qualche modo diventasse ibrida (categoria abusata fino al tedio in questa mostra) insieme all’evoluzione, divenire e al dialogo con le opere esposte. Forse è questo quello che ha dato alla Biennale quel sapore antropocentrico, in cui, anche se parla di postumano, si trova l’umano sempre al centro.
Da un punto di vista stilistico ed estetico, la mostra è profondamente coerente, e quasi si potrebbe considerare “bella”; c’è da chiedersi se questo sia un bene: il postumano è diventato, per ragioni ovvie (crisi climatica, abuso di altre specie viventi, e di interi gruppi etnici e sociali) sempre più di interesse e discussione, anche a livello mainstream. Ci si chiede: questa coerenza e l’impatto a livello strettamente fenomenologico delle opere selezionate può collaborare ad avvicinare il pubblico a queste riflessioni, oppure, al contrario, produce un effetto estetizzante che aliena dal riflettere sui temi di fondo? La risposta si trova nelle riflessioni della filosofia postumanista stessa: eliminare la complessità, per quanto possa servire da un punto di vista pedagogico, è spesso pericoloso. Gabriela Galati, ricercatrice e gallerista
Penso che la curatrice abbia soprattutto cercato di mettere al centro la donna e le sue metamorfosi, come magistralmente mostrato nei due “incipit” della mostra al padiglione centrale dei giardini e all’arsenale: l’elefante di Katharina Fritsch come simbolo di guida matriarcale e la seguente sala con i lavori di Andra Ursuţa e Rosemarie Trockel, così come l’enorme scultura di Simone Leigh circondata dai lavori di Belkis Ayón ci parlano di donne che creano mondi e identità multiple, prescindendo totalmente dall’immagine univoca creata per loro dall’uomo. In questo senso leggo le “capsule storiche” all’interno dei percorsi espositivi come una continuità che la storia, sino al secolo scorso scritta prevalentemente dagli uomini, cercava di nascondere: la presenza intellettuale e creativa delle donne, troppo spesso nascoste dietro prepotenti presenze maschili sin dalle avanguardie.
Mostrare la persistenza delle voci femminili penso sia un modo per indicare chiaramente la strada del futuro: l’indispensabile presenza paritetica e egualitaria tra generi – che non a caso sono sempre più fluidi – integrando e rappresentando la completezza alchemica di questa molteplicità dell’essere plurale come indicato da Claude Cahun (Lucy Renée Mathilde Schwob) e da Rrose Sélavy (Marcel Duchamp) agli inizi del ‘900. Non credo ci sia una questione rispetto al superamento del secolo scorso – e non solo perché fino ad oggi, chi cura, espone e visita le mostre sono per la maggior parte persone nate in quel secolo – ma perché la realtà raramente si costruisce attraverso cesure nette, bensì si trasforma attraverso piccole infiltrazioni che poco alla volta diventano maree. Anni e secoli sono convenzioni temporali necessarie (?) alla costruzione storica, ma ormai sappiamo bene che il tempo è curvo, e non lineare come sin ora rappresentato, cosa che in termini di simbologia femminile e maschile, mi sembra abbastanza chiara da leggere. Gea Casolaro, artista
Il 2022 è stato un anno determinante per il mondo dell’arte, in uscita dall’emergenza pandemica abbiamo percepito netti ribaltamenti e una chiara rottura con il passato, dominato dal modello del maschio bianco eterosessuale. Tutti i grandi eventi espositivi, come Documenta 15, Manifesta e le molte Biennali inaugurate hanno evidenziato questioni globali e parlato della contemporaneità nel modo artistico più diretto e dirompente. Jerry Saltz ha scritto a riguardo che “L’arte rimane un mezzo per esplorare la coscienza, mondi visibili e invisibili. È uno strumento, un mezzo, una matrice o un miracolo che trasforma vecchie impressioni in nuovi pensieri; che illumina mille dettagli insignificanti e ci coinvolge. Negli ultimi anni c’è stato un grande sconvolgimento nel mondo dell’arte. Per la prima volta nella storia -alla Biennale di Venezia- vengono esposte più donne e artisti sottorappresentati. Questo sta cambiando il modo in cui l’arte viene vista e il pubblico che la osserva”.
Cecilia Alemani, direttrice artistica dell’edizione 2022 (prevista per il 2021 e poi rimandata permettendo un più lungo -e forse più giusto- periodo di studio e di ricerca) ha incluso nella sua Biennale un’alta percentuale di artisti che non si identificano come maschi o femmine: dei 213 artisti esposti, solo 21 – ovvero poco meno del dieci per cento – sono (o, se defunti, sono stati) maschi e 180 non sono mai stati esposti nelle edizioni precedenti. Il fatto che Alemani abbia curato una grande mostra internazionale, probabilmente la più importante al mondo, con una maggioranza femminile è un gesto di attivismo curatoriale apertamente femminista e di una necessaria inversione di tendenza. Un altro dato interessante riguarda l’età degli artisti con oltre sessanta artisti nati prima degli anni Sessanta e oltre ottanta artisti deceduti: una selezione che evidenzia una grande attenzione per le generazioni passate, con il lodevole sforzo di voler riscrivere la storia dei decenni e dei movimenti artistici del Novecento inscrivendo in queste traiettorie gli sguardi e le opere di molte artiste donne, troppo spesso dimenticate dalla storia e dalla critica. Una decisione colta e consapevole -esaudita soprattutto nelle sei “capsule del tempo” che scandiscono l’allestimento con opere di sole artiste- che appare come un elemento di forte rottura in una rassegna che storicamente si è posta anche l’obiettivo di mostrare il meglio dell’arte contemporanea mondiale nell’ultimo biennio. Ma i modelli non sono lì per essere messi in discussione e cambiati?
“Il latte dei sogni sarà un viaggio che, attraverso le metamorfosi dei corpi, racconta come sta cambiando la definizione di umano e quali le nuove differenze tra umano e animale”, raccontava Cecilia Alemani durante la conferenza stampa di presentazione. La mostra si è concentrata sulla rappresentazione dei corpi, sulle relazioni tra individui e tecnologie e sulla connessione tra corpi e natura “come fine dell’antropocentrismo e nuova comunione tra esseri e animali”, un approfondimento sul tema del postumano che pare sancire la «fine della centralità dell’uomo, specie quello bianco illuminista, il farsi macchina e terra dell’uomo, il suo disfarsi in favore di corpi permeabili». Lorenzo Balbi, direttore MAMBO, Bologna