ROMA – In occasione della rassegna Enrico Berlinguer e lo sguardo degli artisti. Nel 30° anniversario della morte, a cura di Silvia Pegoraro, e allestita prima alla Camera dei Deputati a Roma, poi a Pescara , “ArteMagazine” ha incontrato Stefano Di Stasio, pittore napoletano classe 1948, fra i protagonisti della collettiva.
Nel 1979 decide di dipingere Plotino a Roma, l’opera scelta per partecipare alla collettiva dedicata al segretario del Pci, ci racconta qual è il “suo sguardo” su Berlinguer e su quegli anni?
«È difficile oggi ripensare al clima di quei lontani anni fine Settanta. Ma ricordo vivamente la sensazione di essere stato testimone della fine di un periodo di impegno, o pensiero impegnato, che voleva farsi carico delle sorti del mondo, in senso sociale, politico, collettivo, mentre cominciavano ad affacciarsi sulla scena culturale e politica le prime teorie sul ritorno al “privato”, sulla rivendicazione dell’”irrazionale” contro gli eccessi ottimistici della “ratio” occidentale, insomma arrivava il Postmoderno, a cui, inevitabilmente, gli artisti della mia generazione, nel bene o nel male, sono stati associati».
Può raccontarci come è nata la sua opera? Come mai ha deciso di dedicare un dipinto ad Enrico Berlinguer?
«Nel mio personale recupero, proprio in quegli anni, della tradizione “figurativa”, ebbi l’intuizione (l’intuizione è il motore della mia arte) di rappresentare una Roma, il mondo ormai preda dell’irrazionale, del caotico ammassarsi di uomini e cose e pensieri, senza più una direzione ideale, terreno fertile perché un filosofo come Plotino, che io anacronisticamente facevo circolare nella città contemporanea, evocasse e diffondesse nella nostra contemporaneità quella forte svalutazione del “reale”, a favore del mondo delle idee, in senso quasi oscurantista, come il “neoplatonismo” aveva fatto nella tarda antichità. Enrico Berlinguer, rappresentante invece di un pensiero eticamente fiducioso nella trasformazione della realtà, in senso progressista e giusto come sappiamo: l’ho immaginato affacciato sconsolatamente alla finestra, a sottolineare la separazione via via più forte tra quel modo di pensare (il suo) e le di lì a poco dilaganti mode culturali della postmodernità, il trionfo di Adelphi su Editori Riuniti…».
La figura del segretario del PCI ha avuto qualche influenza nella sua formazione di uomo e di artista?
«Di uomo senz’altro si, anche se la mia politicità, al di là del voto, non è mai stata attiva. La dialettica tra arte e politica non è cosa facile da spiegare nello spazio di un’intervista.Adorno riteneva che un autore come Beckett fosse più utile al pensiero di sinistra di quanto lo fosse Brecht, perché il primo, mostrando la ferita aperta dell’esistenza umana, ed evitando la consolazione della “rappresentazione” della rivoluzione, come faceva Brecht, poteva semmai spingere a cambiarlo realmente questo mondo…».
Quindi l’arte può avvicinarsi alla politica?
«L’arte quanto più va a fondo nella propria verità che è finzione, tanto più smaschera il falso del mondo».
E quanto nella sua carriera gli ideali hanno influito sul suo modo di dipingere?
«Gli “schiaffi” ricevuti da Marx, mi hanno fatto più bene delle “pacche sulle spalle” ricevute da Nietzsche».