Con “Io, Daniel Blake” Ken Loach mette a nudo le ingiustizie

Potente parabola sulle carenze del sistema di welfare che evita ironia e cinismo e tratta i suoi personaggi in difficoltà con intelligente umorismo e straziante umanità

Ken Loach torna nella sua consueta arena dell’indignazione sociale della sua isola che aveva 50 anni prima occupato in modo simile con le immagini di “Cathy Come Home”. Ken e il suo sceneggiatore/avvocato Paul Laverty partono dall’idea che il sistema di benefici britannico è riproposto come una sorta di casa del lavoro del 21° secolo, da sempre considerata epoca di austerità, deliberatamente triste che scoraggia o progetta di fare fuori tutti, anche i poveri più meritevoli.

Vincitore della sua seconda Palma d’oro a Cannes, il film è già diventato famoso per la brutale scena che mostra il vergognoso segreto viscerale della banca del cibo. Forse, negli anni a venire, questa sequenza diventerà famosa al pari della scarpa commestibile mangiata dal cercatore Charlot – Charlie Chaplin ne “La febbre dell’oro”.

C’è qualche risata ma non solo, molto orrore, molta rabbia. In un’intervista pre-elettorale, David Cameron aveva rivelato che non aveva idea di quante banche alimentari erano presenti in Gran Bretagna, e non è chiaro se Theresa May è stata informata meglio.

In entrambi i casi, la posizione di Loach pone al centro il dilemma del mangiare o del riscaldarsi. In una parola: sopravvivere. Da qui la storia di presunti servizi welfare da consegnare a un carpentiere immaginario (la cui situazione Laverty ha basato sulla ricerca di vita reale) chiamato Daniel Blake, interpretato con onestà e umanità dal comico Dave Johns. Lui è un operaio specializzato e falegname a Newcastle che non può lavorare a seguito di lacci burocratici legati a un grave attacco di cuore che non lo ritiene adatto al lavoro ma neanche ammissibile all’indennità di malattia.

La sua condizione di neofita del web di mezza età che cerca applicazioni online per chi vuole assegno di mantenimento, lo fa passare attraverso un calvario, ma, dopo aver intrapreso questo frustrante quanto umiliate missione per dimostrare la sua rispettabilità, non può accettare i lavori che gli vengono proposti. Tutta la sua esperienza, la conoscenza del mondo, sono ormai privi di valore.

Daniel fa amicizia con una mamma sola con due figli, proveniente da Londra in una situazione analoga: Katie, interpretata da Hayley Squires, Daniel, vedovo e solo, diventa una quasi-nonno per i suoi due figli e un buon amico per lei. Lui è spiritoso e saggio, con vera conoscenza pratica, ma, come Katie, innocente come un bambino.

Loach ancora una volta riesce ad essere radicale e semplice nel medesimo istante diventando così il John Bunyan del cinema; un vero proprio predicatore e portatore di parabole. Loach sembra avere lavorato senza fotografia, e facendolo, ha reso più autentica tutta la sua serietà intransigente di quanto ha da dire.

C’è umorismo nel suo lavoro, chiaro e diretto. Loach e Laverty sembrano tutto sommato estranei e scrivono per ironia e cinismo che sono parte integrante del linguaggio di qualsiasi altro tipo di cinema.

In un altro genere si avrebbe un Daniel sempre più coinvolto in attività criminali o truffe per sopravvivere e, in effetti, Daniel è esasperato quando vede chi fa soldi con prodotti a basso costo provenienti dalla Cina. Ma anche qui Loach non vuole mettere l’illecito a titolo definitivo. I suoi vicini sono simpatici ragazzi con nessun intento a delinquere.

E così Daniel e Katie, la loro amicizia, è quella di essere, in ultima analisi, due individui ai margini estremi della società dove il dramma risultante viene messo insieme con una sorta di robusta ingenuità e dove la narrazione rivela come si gestisce il grande tonfo del possibile fallimento.

E ‘un po’ come la libreria che Daniel sta mettendo insieme: niente di speciale, ma concepita con un candore, una delicatezza, e la totale mancanza di interesse. L’incubo labirintico dei questo balordo sistema sembra ancora più doloroso: un sistema in cui il richiedente viene messo dinnanzi al proprio destino dove la risoluzione non si trova neanche avanti alla la moderna bidella all’occorrenza divenuta “Decision Maker” .

Un sistema volutamente progettato per creare solo disperati, che urlano futili improperi negli uffici in attesa di “sanzioni” e punizioni. Quando Daniel fallisce il test iniziale per pochi punti, arbitrariamente concepito, si ritrova a pensare, “Se solo non fossi così onesto, se solo avessi avuto l’intelligenza di ingannare il sistema, solo un po”. Ma così facendo sarebbe diventato proprio quella figura ordinaria, che senza vergogna o vantaggi, imbroglia e, la cui presenza nella commedia nera rischia di non scuotere più.

Questo film e il suo abbinamento di Kate e Daniel fa pensare alla “Casa desolata” di Dickens: “Quello che i poveri sono i poveri è poco conosciuto, eccetto a se stessi e (qualche volta) a Dio.”

Loach sembra invece volerci dare una informazione più precisa e diversa: la conoscenza mostra a noi che la povertà non è affare di nessun dio, ma ci nostra che siamo in grado di capirla e fare qualcosa al riguardo.

I, Daniel Blake Regno Unito, Francia

2016

100 min colore sonoro drammatico Ken Loach Paul Laverty Cinema

Robbie Ryan Jonathan Morris George Fenton

Titolo originale Paese di produzione Anno

Durata Colore Audio

Genere Regia Sceneggiatura Distribuzione (Italia)

Fotografia

Montaggio Musiche

Scenografia Fergus Clegg e Linda Wilson 

Alessandro Tartaglia Polcini

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