Il giorno che Maria imparò il “Requiem aeternam”: 50 anni fa il “Concilio”

RAVENNA – C’è qualcosa che non quadra! In tutte le “celebrazioni” – sia laiche che religiose – per il 50° anniversario dell’apertura del Concilio Vaticano II, c’è qualcosa che sfugge ed è: “Perché?”.

Perchè una “Struttura”, che ha nella “tradizione” (tradere = consegna) la sua costituzione fondamentale, sente il bisogno, a 50 anni di distanza, di glorificare e osannare gli approdi e le conclusioni dell’ultimo Concilio, invece di proporre una “sessione” di revisione o, se veramente necessario – come propose il cardinal Martini – l’indizione d’uno Nuovo?

La risposta, come sempre accade nelle cose che riguardano la Chiesa di Roma, è nascosta tra le righe e tra le molte sottigliezze curiali che, solo per motivi gerarchici, il Santo Padre si assume (quasi sempre) l’onere di svelare.

Così ieri, anniversario della solenne apertura conciliare dell’11 ottobre 1962, al qual don Ratzinger partecipò come consulente teologico dell’arcivescovo di Colonia cardinale Josef Frings, durante la Liturgia Benedetto XVI ha spiegato al mondo che: “In questi decenni è avanzata una “desertificazione” spirituale”, rispetto alla quale – ha affermato il pontefice – “ho più volte insistito sulla necessità di ritornare, per così dire, alla “lettera” del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne anche l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II si trova in essi”.

Su quale sia questa eredità, il papa ha indicato quella di “una tensione commovente nei confronti del comune compito di far risplendere la verità e la bellezza della fede nell’oggi del nostro tempo, senza sacrificarla alle esigenze del presente né tenerla legata al passato – perché – nella fede risuona l’eterno presente di Dio, che trascende il tempo e tuttavia può’ essere accolto da noi solamente nel nostro irripetibile oggi”.

“Il riferimento ai documenti – ha spiegato il papa – mette, dunque, al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità. Il Concilio non ha escogitato nulla di nuovo come materia di fede, né ha voluto sostituire quanto è antico. Piuttosto si è preoccupato di far sì che la medesima fede continui ad essere vissuta nell’oggi, continui ad essere una fede viva in un mondo in cambiamento”.

Ecco, allora, il punto! L’obiettivo vero: ridimensionare quell’evento che, nella storia della Chiesa ha segnato, invece, un vero e proprio spartiacque per riportarlo da “atto rivoluzionario” (l’ultima vera rivoluzione del 20° secolo), a fatto normale – come tanti nella millenaria storia della Chiesa di Roma; unico vero modo per depotenziarne gli effetti che, nel corso di questi 50 anni, invece, si sono visti ed apprezzati nello spirito di quella che fu la volontà del suo ideatore: il beato Giovanni XXIII. Uomo rivoluzionario sin dal suo primo atto da pontefice: la scelta di quel nome, inutilizzato da secoli perché attribuito ad un “antipapa”.

è vero! Nelle quattro “Costituzioni”; nei nove “Decreti” e nelle tre “Dichiarazioni” con cui il Vaticano II si è concluso, il 7 dicembre del ’65, i padri conciliari non si sono occupati di cercare o di segnalare novità “in materia di fede” né “di sostituire quanto è antico”.

Ma, è anche indubbio, che nella loro ricerca di rendere – nello spirito giovanneo – la Chiesa “madre”, hanno prodotto una vera rivoluzione, proprio nel senso affermato da Paolo VI nel discorso conclusivo che evidenzia come il Concilio abbia rivolto “la mente della Chiesa verso la direzione antropocentrica della cultura moderna, non disgiunta, però, dall’interesse religioso più autentico”, soprattutto a motivo del “collegamento […] dei valori umani e temporali con quelli propriamente spirituali, religiosi ed eterni: [la Chiesa] sull’uomo e sulla terra si piega, ma al regno di Dio si solleva”.

Altro, dunque, che “novità nella continuità”.
Quale continuità c’è, infatti, nella definizione di “sacerdozio comune dei fedeli” (Lumen Gentium) che, aprendo alle teorie luterane (condannate dal Concilio di Trento) e specificando la distinzione tra sacerdozio battesimale e ministeriale (gli ordinati), considerò compito della Chiesa, dei laici in primo luogo, di riallacciare profondi legami con “gli uomini e le donne di buona volontà” (marxisti compresi), soprattutto nell’impegno comune per la pace, la giustizia, le libertà fondamentali, la scienza.

O, ancora, dov’è la “tradizione” quando nella “Gaudium et Spes” i 2.554 padri conciliari  pongono l’attenzione della Chiesa sulla necessità di aprire un proficuo confronto con la cultura e con il mondo che, “pur se lontano spesso dalla morale cristiana, è pur sempre opera di Dio e quindi luogo in cui Dio manifestava la sua presenza”? E, per questo motivo, fondamentalmente buono.

Si tratta di “continuità” o di rivoluzione, poi, il passare dalla preghiera per il “perfido popolo ebraico” alla ricerca del confronto con tutte le confessioni religiose e, dopo anni di reciproci anatemi, al dialogo ecumenico con tutte le confessioni cristiane?

Personalmente, però, il segno della rivoluzione conciliare che più mi piace ricordare è rinchiuso nell’intimo dell’esperienza familiare. Nel ricordo che ho di mia nonna materna, Maria, il giorno che ci raccontò della gioia provata nel partecipare alla sua prima Messa in vernacolo.

Tra le lacrime, Maria, che non aveva concluso le elementari, raccontò – a noi nipoti che non l’avevamo mai vista celebrare nel modo pre conciliare – dello stupore di guardare, (invece delle terga), il volto del celebrante girato, finalmente verso il popolo di Dio e della felicità di poter comprendere, finalmente, il “Credo”, il “Padre Nostro”, il “Santo” tutte formule che il latino aveva ridotto a vuote sequenze di parole, ripetute “a pappagallo”, senza alcun significato.

Ma ciò che più di tutto ci commosse nella testimonianza di Maria, che era donna di intelligenza acutissima e di religiosità profondissima, fu quando ci confessò – sorridendo – di aver finalmente capito che “Requie materna, dona eis, Domini!” significava “L’eterno riposo, donagli signore”.

Povera nonna! Chissà che stupore avrebbe provato se le avessimo confessato che, in realtà, il suo “Requie materna”, che per oltre 50 anni aveva recitato, chiedeva al Signore il riposo per sua madre. Nessun nipote ebbe mai il coraggio di confessarglielo!

Alessandro Bongarzone

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