Maria Concetta Cacciola. Le “ragioni” di un sudicio in un file audio

REGGIO CALABRIA . Si infittisce il mistero sulla morte di Maria Concetta Cacciola suicidatasi sabato scorso ingerendo acido muriatico. La donna dopo aver abbandonato la località protetta si era recata dai figli a Rosarno, in provincia di Reggio Calabria, proprio dove attraverso le sue rivelazioni aveva fatto ritrovare agli inquirenti alcuni nascondigli della cosca Bellocco.

Ma la sua speranza era quella di andare via, allontanarsi dal fratello e dal padre, quel Michele Cacciola, cognato del boss della ndrangheta don Gregorio Bellocco, dell’omonima cosca. Non la facevano uscire, la picchiavano e le rendevano la vita un Inferno con tre figli da crescere ed il marito, Salvatore Figliuzzi che sta scontando otto anni di carcere per associazione mafiosa nel processo “Bosco Selvaggio”.

Stanca di tutto ciò ha deciso di raccontare  ai magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria ciò che sapeva e dopo essere stata interrogata un paio di volte, la Procura della Repubblica aveva chiesto e ottenuto che Maria Concetta Cacciola venisse inserita nel programma di protezione previsto per i testimoni di giustizia. Grazie alle sue dichiarazioni si è giunti alla localizzazione di alcuni bunker. Un ritrovamento importantissimo per i sostituti procuratori Alessandra Cerreti e Giovanni Musarò i quali, dal 10 agosto, erano stati informati dal Servizio centrale di protezione che Maria Concetta Cacciola aveva abbandonato la località protetta per tornare a Rosarno. Il richiamo dei figli, che dopo tre mesi erano ancora con i nonni nella cittadina della Piana può essere stato il motivo scatenante del suo gesto. Ed una volta arrivata non ce l’ha fatta. Non ha avuto il sostegno per portar via i suoi figli e rompere completamente con la sua famiglia e con quella vita, tant’è che dal suo drammatico gesto emerge tutta la sua impotenza.

A dirlo è stata lei stessa in una registrazione audio che è nelle mani della procura di Palmi unita ad uno scritto che la donna avrebbe lasciato prima di ingerire l’acido muriatico.
Una registrazione di pochi minuti datata 12 agosto, due giorni dopo il rientro a Rosarno, nella casa dei genitori dove erano rimasti i suoi tre figli. La stessa abitazione nella quale una settimana dopo l’ha vista rintanarsi in bagno per porre fine alla sua sofferta e insopportabile esistenza.

«Voglio raccontare quello che mi è successo a maggio scorso – queste le parole testuali della Cacciola – quando in occasione di una convocazione in caserma per mio figlio, vedendo i carabinieri, ho pensato, cercavo di aggrapparmi ad una mia liberazione, avevo dei problemi in famiglia, erano arrivate delle lettere anonime, non ero capita, la gelosia di mio marito in carcere, i miei mi alzavano le mani, mi chiudevano in casa, non potevo uscire, non potevo avere amicizie volevo fargliela pagare… ho parlato con i carabinieri dicendo se mi possono dare una mano, che ho problemi con mio padre Michele e mio fratello Giuseppe , non mi facevano uscire gli ho detto delle cose per andare via di casa».

Nella registrazione, la donna afferma di aver parlato in seguito con due magistrati. «Mi hanno portata a Cosenza poi sono venuti di nuovo i magistrati – ha parlato ancora la donna di fronte al registratore   – facendo pressione su delle cose, delle famiglie. Io ero preso di rabbia e mettevo sempre mio padre e mio fratello in tutto, perché volevo fargliela pagare». I rifugi della donna, dunque, da Cosenza a Bolzano fino a Genova. Un percorso a tappe che la stessa donna ha ricostruito nella registrazione audio che da ieri è sul tavolo della Procura di Palmi. Dopo qualche settimana, Maria Concetta, dice che voleva già tornare indietro «perché mi rendevo conto di quello che stavo combinando – ha scandito ancora al registratore – a Bolzano ho detto che voglio un avvocato ma mi hanno detto che per la legge un testimone non può avere un avvocato, volevo tornare indietro, ma loro mi dicevano, renditi conto, ci sono i tuoi, la tua famiglia, il tuo paese non accetta quello che hai fatto, se prima ti volevano fare fuori perché supponevano una relazione, pensa adesso quello che ti succede io avevo paura di tornare in Calabria, non di mio padre. Ora sono a casa con mio padre, mia madre, i miei fratelli ed i miei figli ed ho la serenità che cercavo. Aggiungo che avevo scritto una lettera a cui aggiungo questa registrazione per il futuro e di non essere stata aiutata da nessuno».

Una strana confessione tenuto conto che la donna voleva andare via principalmente dalla famiglia. Eppure  con queste parole si evince tutta la sua impotenza e le deficienze del sistema di protezione dei testimoni di giustizia. I genitori oggi accusano la Procura di Reggio Calabria di avere indotto la loro figlia ad offrire la testimonianza in cambio di false promesse, ma nel frattempo la capogruppo del Pd in commissione Antimafia, Laura Garavini, con gli altri deputati del partito presenti in Commissione, ha presentato un’interrogazione parlamentare sulla vicenda di Maria Concetta Cacciola.

«Vi sono – afferma Garavini – molte cose poco chiare in questa vicenda: perché la Cacciola era stata ammessa al programma dei collaboratori di giustizia e non a quello dei testimoni di giustizia, pur non avendo commesso nessun crimine? Perché sia stata tenuta lontana dai figli? Come mai era potuta rientrare nel proprio paese senza che il ministero dell’Interno ne fosse informato o si attivasse per sostenerla adeguatamente in una fase così delicata della sua vita? Bisogna anche capire se su queste decisioni ci fosse stata piena intesa tra la Commissione centrale di protezione e la magistratura calabrese». «Decidere di considerare – prosegue – tutte le mogli o le compagne che testimoniano, da innocenti, sulle responsabilità dei loro mariti e compagni come se fossero delle collaboratrici di giustizia è fortemente penalizzante, sia per il rapporto con eventuali figli che nel percorso di reinserimento sociale. Forse non è un caso se questo non è il primo suicidio di una donna in questa condizione».

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