La cultura in Italia. Scelte gestionali e conseguenze sociali

ROMA – Spiragli di luce appaiono nel buio dello scenario culturale italiano? Forse l’incipit è un po’ troppo romantico, ma viene dal tentativo di pensare in positivo, per combattere lo scoramento e la rabbia  che coglie a fasi alterne operatori culturali e cittadini di questo Paese.

Se Roma affoga nell’acqua piovana e in quella stagnante delle rare ed errate decisioni capitoline, dal Ministero della Cultura qualche novità positiva viene annunciata: defiscalizzazione per i privati che sostengono la cultura, stanziamento di fondi per il Jazz italiano, riconoscimento di alcune professionalità attraverso l’istituzione di registri pubblici…

L’impegno del Ministro Franceschini è visibile, sebbene sia da sottolineare che, in riferimento all’arte visiva (includiamoci ancora l’architettura!) e alle sue professioni,  sempre e comunque si parla di valorizzazione, tutela e conservazione. Le stesse professioni riconosciute dal Ministero sono quelle che perlopiù hanno a che fare col passato. Possibile che in Italia la produzione non venga mai contemplata? 

Il patrimonio di questo Paese va protetto e valorizzato ed è sicuramente un impegno fondamentale che uno Stato serio deve assumersi;  ma perché ignorare che oggi stiamo costruendo il patrimonio che tra 100 anni (se non prima, diciamocelo) verrà probabilmente lasciato crollare?

Ancora il caso Roma ci viene in aiuto, quale paradigma di un comportamento diffuso: il caos MACRO ha prodotto l’effetto MAAM (Museo dell’Altro e dell’Altrove), la gestione di matrice politica del MAXXI, lo snaturamento del museo.

La crisi economica del MACRO, con la sua influenza sulle realtà espositive e culturali anche private, ha costretto a ripensare la relazione con il sistema ufficiale, conducendo tra l’altro a un fenomeno di migrazione degli attori locali dell’arte verso un ex spazio industriale, ora occupato come luogo abitativo.

Nulla di male, anzi, ma – nel suo specifico – il fenomeno MAAM  è criticabile per il modus operandi. 

E qui so che mi attirerò gli strali di colleghi, artisti e amici, oppure verrò tacciata di invidia, come d’uso in certi casi, ma la verità è che a questa operazione muovo una critica fondata.  Il luogo viene trattato come spazio espositivo e non relazionale, come il contesto richiederebbe. La maggior parte degli artisti (se non tutti) ha portato o realizzato un’opera, invece di produrla in loco attraverso un lungo processo di scambio partecipativo con la comunità che vive li.  In tal modo, invece di rappresentare un’alterità nutrice e propulsiva per la comunità locale, quella artistica e sociale più ampia, l’operazione ha prodotto un surrogato del museo ufficiale, con un approccio curatoriale colonialista, fallimentare e già da tempo superato altrove nel mondo. 

Vale la pena soffermarsi a riflettere sulla questione: il mancato interesse della pubblica amministrazione, nazionale e cittadina, sta minando la capacità di elaborazione?  

Se penso ad operazioni simili – sebbene in Paesi diversi dal nostro –  in cui vi è una collaborazione fattiva tra arte e società in contesti degradati (come ad esempio il progetto El puente Lab a Medellin) ravvedo gli elementi di una progettualità relazionale che ha condotto, negli anni, a una partecipazione attiva della municipalità e a un ampliamento del bacino d’utenza della cultura. 

E proprio quest’ ultima questione non va trascurata, essendo uno dei punti dolenti delle errate politiche culturali di questo Paese.  A questo mi riferivo accennando alla gestione di matrice politica del MAXXI che, nel tentativo di aumentare la bigliettazione, anche questa estate propone concerti come la taranta (la cui casa naturale sarebbe il vicinissimo Auditorium) e rassegne di film comunque visibili in una delle arene cittadine (le poche sopravvissute ai tagli all’Estate romana!).

Pur essendo favorevole agli attraversamenti disciplinari e alle contaminazioni, non trovo che snaturare  un museo sia il miglior modo di aumentarne i visitatori. In tali contesti la capacità gestionale va misurata anche con la chiara capacità di elaborare programmi (se necessario, low cost) di “mediazione” tra mission dell’istituzione e intrattenimento. 

E allora molto meglio la decisione del Ministro Franceschini di eliminare gli ingressi gratuiti per gli over 65, in favore di un’apertura gratis per tutti i cittadini una volta al mese. Le molte critiche che gli sono state  mosse, lo confesso, mi lasciano perplessa. 

Sebbene sarebbe fantastico un mondo di gratuità per anziani, bambini, professionisti etc., non considerare che in questo momento gli unici a poter pagare sono i pensionati, vuol dire non guardare alla realtà. I musei sono frequentati da scolaresche e da anziani. Avvicinare i cittadini tra i 20 e i 55 anni significa garantirsi un futuro di visitatori. Chiudere gli occhi su questo vuol dire ragionare ancora secondo le logiche barricadere che troppo spesso hanno contribuito (diciamocelo) all’elitarietà della cultura in Italia.

Il mercato si testa, vediamo che succede.

 

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