Speciale viaggi. Ladakh, la terra del sorriso. Parte 1

Jullay! È il saluto nella lingua ladaki. Vuol dire ciao, ma anche arrivederci, buongiorno e buonasera, grazie e prego. Sempre Jullay.

Facile da imparare, utile in così tante occasioni che è impossibile non ricordarlo. È una parola dal suono dolce, richiama la gioia, la festa, il sorriso.

Una propaggine che si allunga a nord del subcontinente indiano e che si staglia imponente nel cielo, tocca quota 3500 nella capitale Leh fino agli oltre 5000 metri del passo carrabile più alto al mondo, Khardung La.

È in alto il Ladakh, sul tetto del mondo, e quando arrivi il cuore batte forte, la testa gira, gli occhi sono abbacinati dalla luce del sole d’estate e dalla neve perenne d’inverno. Il corpo chiede una pausa, vuole tempo per abituarsi all’insolito e ardito paesaggio.

Chiede quiete per gustare il silenzio di montagne sacre e impenetrabili, occhi pieni per abbracciare un paesaggio incontaminato, arso e sconfinato, cuore aperto che sappia accogliere il suono primordiale di preghiere antiche trasportate dal vento e assorbite dall’aria rarefatta dei passi d’alta quota e dal profumo degli incensi sacri dei monasteri.

La terra del sorriso

Ai lati delle strade in terra battuta volti bruciati dal sole e dalla polvere. Donne, uomini, spesso ragazzi strappano alla montagna pezzi di roccia per far spazio al più comodo asfalto. Gli ultimi della terra, con una tanica verde di acqua sulle spalle e un turbante in testa, li incontri sin dal mattino, presto, sui crinali assolati. Uno sguardo veloce tra noi e loro, tra chi seduto su un comodo sedile di una macchina ammira il paesaggio e chi è pronto a iniziare una giornata di polvere, fatica e sudore.

Sono sguardi stanchi, rassegnati eppure con una certa serenità, col sorriso di chi, nonostante tutto, accetta di buon grado il destino, il karma, il posto che gli è toccato in sorte in questa parte del mondo.

Alle file interminabili dei lavoratori lungo le strade del Ladakh si alternano quelle dei bambini e dei ragazzi che vanno a scuola.

Si preparano presto alla mattina, li ho visti lavarsi la faccia in un secchio vicino casa, salutare i genitori e aggiustarsi la divisa della scuola per bene prima di incamminarsi a coppie, a piccoli gruppi, da soli. Una marcia in cammino verso la conoscenza, verso il futuro, col sorriso sul viso e nel cuore.

Il Ladakh è costellato di scuole, in ogni distretto, in città e nei paesi rurali, nelle valli sperdute e tra i sentieri di campagna la scuola non manca mai. Da una parte i lavoratori che ingaggiano per tutta la giornata un duro corpo a corpo con la montagna e dall’altra questa emozionante marcia per la conoscenza.

Sono entrato in più di una scuola del Ladakh, lasciandomi guidare dal viaggio e dalla sua apparente casualità.

Nella Valle di Suru, a margini della remota regione dello Zanskar, ho passato un’intera mattina con una trentina di ragazzi e ragazze musulmane della decima classe, quelli più grandi; a Lamayuru un ragazzo mi ha guidato tra le classi della sua scuola e mi ha fatto conoscere Mario e la sua associazione di Torino che la sostiene; a Leh, infine, ho visitato la Tibetan Children School, la scuola dei rifugiati tibetani.

Tre realtà e tre prospettive diverse di scuola. Ho sfogliato diari, quaderni, libri, sono stato tra loro. Ho parlato con gli alunni, con gli insegnanti e anche con un preside.

E ho capito che la scuola, ad ogni latitudine, c’è sempre. Che per me è essenziale ritrovarla, diversa e sempre uguale, in alta montagna o su un’isola, piccola e senza banchi o attrezzata e fornita con le ultime tecnologie. La scuola per me è casa, anche a migliaia di chilometri di distanza, in un’altra lingua, in un altro mo(n)do.

Ogni mattina, dal Nord al Sud mondo, c’è sempre un piccolo o grande alunno che si prepara per andare a scuola, mette libri e quaderni nello zaino, prende il pullman, la macchina, le scarpe per incamminarsi.

E c’è anche un insegnante che si prepara per entrare in classe, fare lezione, incontrare i suoi alunni e, come dice un antico detto del Buthan, “per toccare il futuro”.

E in questo incontro, in questo percorso, c’è tutto il senso dell’educare, del venire incontro al mondo, della scuola ovunque essa sia.

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