Speciale viaggi. Ladakh, supplenze impreviste. Parte 3

“È un onore per noi averti qui e lo sarà ancora di più per i ragazzi e le ragazze. Loro sono abituati a vedere sempre le stesse persone, gli stessi docenti, ogni giorno. Sarà un’opportunità preziosa ascoltarti”.

Il Preside arriva nel suo ufficio dopo aver assistito all’assemblea di inizio giornata. Un’insieme di preghiere, canti, avvisi ed esercizi fisici che si svolge ogni mattina, in file rigorosamente ordinate dalla prima alla decima classe, nell’ampio cortile della scuola.

A scandire al microfono i diversi momenti dell’assemblea c’è un piccolo gruppo di ragazzi più grandi. Quando il preside mi incontra sul ballatoio mi accoglie con la gentilezza di chi guarda al mondo e agli altri con fiducia, senza remore. È giovane, con un elegante cappello nero a tese larghe, occhiali tondi tondi leggermente scuri, camicia bianca e gilet nero. 

“Ho pensato che oggi potrà stare con i ragazzi più grandi, quelli della decima classe, loro sanno bene l’inglese così potrete capirvi senza problemi” mi dice mentre mi fa strada lungo il ballatoio prima di entrare nell’ultima aula in fondo. 

Il leggero mormorio che avverto da fuori si spegne istantaneamente appena varchiamo la soglia, gli alunni si alzano all’unisono da terra tra sguardi seri e sorpresi.

La classe è  una stanza rettangolare con ampie e luminose vetrate su tre lati, a terra l’intera superficie del pavimento è  ricoperta da un tappeto a righe nero, appesa sbilenca sullo stipite della finestra una lavagna bianca. Sull’unica parete laterale di cemento un poster con la tavola periodica, la carta geografica con il mondo e due cartelloni, uno con la rappresentazione della cellula e l’altro sul sistema circolatorio.

Non ci sono banchi, non ci sono cattedre, non ci sono computer. Ci sono loro, ci siamo noi e questo basta. Cosa è una classe se non questo? Un luogo di incontro, di scambio, di apprendimento tra ragazzi e adulti, tra umanità in crescita.

Noto subito la rigida divisione tra le ragazze che occupano le ultime file e i ragazzi che invece sono seduti davanti. Osservo e decido  di mettere da parte il giudizio. Non sono qui per confrontare, per criticare né tantomeno  per proiettare i miei parametri eurocentrici o le mie aspettative occidentali su di loro.

Il preside intanto ha chiesto il libro di geografia ad uno dei ragazzi della prima fila. “Ecco, questo è l’indice” mi dice mentre scorre col dito i capitoli e gli argomenti.

Poi accade tutto in un battibaleno. Non faccio in tempo a finire di leggere ad alta voce il titolo “Minerals in India”, che lui ha già ordinato ai ragazzi di prendere page fiftysix perché oggi avranno un insegnante speciale che viene da molto lontano, dall’Italia.

Sono confuso, spaesato. Fino a pochi minuti prima gli avevo chiesto di poter assistere in modo discreto e silenzioso alle loro lezioni, magari in un piccolo angolo di una classe e ora mi ritrovo a dover fare una lezione, in inglese, sui minerali dell’India, a 30 ragazze e ragazzi che nel frattempo hanno già tirato fuori dai loro zaini il libro a pagina fifitysix, il quaderno e la penna.

Ci deve essere stata senza dubbio un’incomprensione linguistica! Alla vista del mio sguardo smarrito il preside mi spiega che proprio oggi manca la professoressa di geografia e che quindi posso sostituirla io che insegno proprio la stessa materia.

Cerco di spiegare con calma, e in un inglese quanto più chiaro possibile, che non sono in grado di parlare dei minerali caratteristici dell’India, tuttavia potrei dire qualcosa di me, dell’Italia, della mia scuola. “You can talk them about what you want”, mi  risponde sorridendo, poi va verso la porta e se ne va.

Fino a poco fa ero un curioso viaggiatore entrato per caso in una scuola indiana, adesso mi ritrovo a fare una supplenza di non so bene cosa, da solo, davanti a una platea di occhi vispi e profondi che attende di capire cosa sia capitato a fare lì tra loro. Eppure adesso qualcosa dovrò pur dire! Riannodo nella mente i miei incerti costrutti sintattici inglesi e inizio a parlare di me.

Sono in piedi, senza scarpe, davanti a loro. Non c’è una cattedra a far da filtro tra me e loro, né  tanto meno altra forma di mediazione. È  un tu per tu senza schermi e senza schemi.

Mi appiglio alla carta geografica appesa alla parete, dico che vengo dall’Italia, un piccolo paese dell’Unione Europea a forma di stivale la cui capitale è Roma. L’attenzione, l’ascolto e il senso di rispetto che percepisco è  altissimo, ma anche la formalità, l’imbarazzo e una certa rigidità che non mi appartiene. Qualcuno di loro prende addirittura appunti, eppure mi avverto così noioso e didascalico che, mentre parlo dei mari che bagnano l’Italia già sento di essere già in balia di una ingovernabile pedanteria da prof. 

Così decido di cambiare registro, inizio a gesticolare sempre di più e a fare domande. Voglio coinvolgerli, dialogare con loro e non tediarli su argomenti astratti e lontani anni luce dalla loro vita. Do you know something about Italy? Silenzio. Do you know our food? Silenzio. Have you ever hear about coffee, spaghetti, pizza? Elena, seduta poco distante, mi suggerisce la parola “mandolino” prima di scoppiare in una sonora risata. No, non ci siano proprio, non va bene neppure così! A chi sto parlando? A dei ragazzi di una regione remota ed isolata dell’India del nord, che dell’Italia nella loro vita ne avranno a malapena sentito parlare un paio di volte.  Dalla pedanteria sono passato all’italocentrismo condito di luoghi comuni e banalità!

Voglio concedermi l’ultima chance prima di alzare bandiera bianca: devo trovare un aggancio, un appiglio, una strategia per accendere un minimo interesse, per rendere significativo questo nostro stare insieme.

“Facciamo così, vi insegnerò alcune parole e frasi in italiano, vi va?”.  Li vedo inaspettatamente incuriositi e così comincio: “hello in italiano si dice ‘ciao'”. Scandisco bene le lettere, una ad una, cercando di esprimere la massima espressività e gestualità. Ripetono in coro ‘ciao’, divertiti dal sentire nella loro voce il suono di una lingua nuova. “Goodby means ‘arrivederci'”, good morning buongiorno e goodnight buona notte”, ogni parola nuova vogliono ripeterla in coro, le scrivo col pennarello sulla lavagna e loro le riportano immediatamente sul quaderno. Continuiamo così per una buona ora, passando dal “come stai?” al “come ti chiami”. Un ragazzo mi chiede anche come si dice “vuoi uscire con me?”, chiaro richiamo ad un uso funzionale, pratico e in situazione della lingua. “Vuoi forse fidanzarti con una ragazza italiana?” gli chiedo. Ridiamo insieme, impariamo, ci conosciamo e mi riconosco, mi ritrovo, sento di essere me stesso adesso, nonostante stia parlando in inglese, in una scuola musulmana, in una valle sperduta del Ladakh.

Elena mi suggerisce di coinvolgere di più le ragazze che, pur essendo attente, tuttavia lì in fondo interagiscono poco con me. Le chiedo di chiamare una ragazza per farle scrivere alla lavagna la traduzione delle parole e delle frasi italiane nella loro lingua. Ne sceglie una tra il gruppo che, con estrema timidezza, si alza titubante, sussurra il suo nome e lentamente trascrive le traduzioni sulla lavagna tra l’imbarazzo e la soddisfazione.  Adesso tocca a noi ripetere le parole in ladakhi, siamo noi gli alunni, non così bravi come loro nella pronuncia di parole e fonemi difficili da decodificare.

È  uno scambio culturale bello nella sua semplicità. Le parole  che ci doniamo hanno l’effetto di sciogliere le barriere linguistiche, culturali e sociali. Le parole ci avvicinano incredibilmente.

Chiedo poi al ragazzo dagli occhi vispi prima fila a destra di consigliarmi tre cantanti indiani da ascoltare, ci pensa su e li scrive su un minuscolo pezzetto di carta strappato dal quaderno, anche lui me ne chiede tre italiani e i primi che mi vengono in mente sono Blanco, Emma e Marco Mengoni. E poi vogliono sapere il nome dei calciatori italiani più famosi e  se conosco la canzone “Bella ciao”, potere universale delle serie tv di successo. Ci regaliamo il piacere di canticchiarla insieme.

Sto davvero cantando “Bella ciao” in una scuola musulmana in India? Ancora frastornato e pieno di entusiasmo mi accorgo che sono già passate più di tre ore da quando siamo entrati qui ed è ora di andare!

Il tempo di salutarci, di scattare qualche foto insieme e siamo fuori sul ballatoio. Nel frattempo, nelle altre classi sembra sia iniziata la ricreazione, passando davanti ci invitano ad entrare, anche solo per un saluto. Ogni volta la stessa attenzione, lo stesso ascolto, gli stessi sorrisi pronti ad accoglierci.

“Scusi, possiamo fare una foto insieme?” mi fa un ragazzo della decima classe. “E se dovessi venire in Italia cosa le dovrei dire?” mi chiede, fresco di lezione di lingua italiana.

“Bhe…buongiorno! Come stai?” dico ridendo insieme a lui. 

Mentre esco, mi volto ancora, il tempo di un ultimo saluto, mani giunte al cuore. E il sole di mezzogiorno illumina tutto.

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