Liberalizzazioni. Le corporazioni tengono in ostaggio l’economia italiana

 

Secondo l’Ocse siamo agli ultimi posti nel mondo nella classifica della libertà di mercato. Eppure, chi vuole le liberalizzazioni è accusato di essere un comunista. La schizofrenia di un Paese ammalato dove ognuno lotta strenuamente per difendere i propri interessi materiali, anche a costo di far fallire tutti

Oramai a difendere i privilegi degli ordini professionali, dei farmacisti, dei benzinai e dei taxi sono rimasti soltanto coloro che vivono dentro le categorie protette. I più arrabbiati sono quelli che non ne traggono poi gran profitto, come i tassisti che temono soprattutto di perdere il valore delle loro licenze (100 mila euro ciascuna, in una città come Roma).

Già, perché nessun economista serio, oggi, di nessuna facoltà economica del mondo afferma che vendere le medicine soltanto nelle farmacie, costringere gli automobilisti a comprare il carburante soltanto nelle stazioni di servizio, dover andare da un notaio per acquistare casa pagando la tariffa stabilita inderogabilmente dal professionista sia un vantaggio per il sistema economico. Insomma, chi studia il funzionamento dei mercati senza interessi personali da difendere non può che essere a favore dell’abolizione degli ordini professionali – un residuato medievale che, nella forma in cui li conosciamo, esistono solamente in Italia – e per l’abbattimento (magari progressivo) dei settori protetti dalla legge.

Eppure, nonostante questa lampante evidenza, i difensori dei privilegi delle corporazioni non trovano di meglio che fondare le loro astruse difese su argomentazioni di tipo economico, che per la maggior parte sono totalmente campate in aria. Ad esempio, i farmacisti (soprattutto quelli che votano per Berlusconi) accusano i liberalizzatori di voler solamente privilegiare la grande distribuzione e le coop comuniste, dando loro la possibilità di vendere anche i farmaci di fascia C (quelli con ricetta ma a totale carico degli acquirenti). Un’accusa demenziale, da ricovero in un centro di igiene mentale. Gli Stati Uniti sono un Paese comunista? Non lo sospettavamo, eppure lì i farmaci sono venduti nei supermercati e perfino nelle piccole botteghe alimentari. La stessa cosa urlano i membri della corporazione dei benzinai, forse la più potente perché è in grado di bloccare, con uno sciopero, un intero sistema economico. Eppure, in Francia, dove i grandi supermercati come “Auchan” hanno tutti la loro pompa di benzina, ogni settimana gli automobilisti trovano offerte sul carburante, magari associate ad un ticket da spendere dentro i banconi alimentari.

Secondo un’organizzazione che certo non è comunista, l’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione economica fra i Paesi industrializzati), l’Italia è nelle posizioni di coda nella classifica dei sistemi economici più protetti e chiusi alla libera concorrenza. Sui trenta Paesi presi in considerazione, il nostro occupa la 27° e 28° posizione nel settore dei servizi professionali e postali, 23° nei trasporti terrestri, 22° in quelli aerei e 18° nel commercio al minuto. Piccolo dettaglio: le mancate liberalizzazioni e l’abolizione degli ordini professionali ci costano circa mezzo punto di Pil ogni anno (cento miliardi), ma la stima è sicuramente per difetto.

La malafede dei membri delle corporazioni non si ferma a queste giustificazioni, perché fanno di più. Ad esempio, i notai ritengono che ogni limitazione o perdita di funzione del loro ordine si traduce in un danno per i consumatori. Senza mai contestare il costo delle loro operazioni (le parcelle sono stabilite da loro stessi e sono fra le più alte del mondo), essi vogliono convincerci che acquistare una casa con un loro atto o dividere un’eredità ci fa dormire sonni tranquilli. Ma ci sarebbe il sistema per dormire ugualmente tranquilli senza pagare parcelle stratosferiche, affidando ad esempio ad uffici statali o ad agenzie private che si contendano il mercato il compito di redigere atti pubblici. Gli avvocati dicono che l’imposizione di tariffe minime ostacola una corsa al ribasso dei servizi legali ma non spiegano perché ciò debba valere soltanto per loro e non, ad esempio, per un consulente informatico o assicurativo, per uno statistico, per un archivista, per un infermiere. In teoria (e anche in pratica), tutti i produttori di servizi agognano l’esistenza di una tariffa minima obbligatoria e non si capisce perché la debbano avere soltanto gli iscritti ai pochi albi professionali esistenti in Italia. Perfino i giornalisti, il cui ordine fu creato ai tempi del fascismo e risulta, oggi come oggi, il più inutile e perfino anticostituzionale, per difenderlo cianciano di “professionalità dell’informazione”, che soltanto un esame di Stato può assicurare e via discorrendo, dimenticando le frotte di iscritti che calpestano un giorno sì e l’altro pure il codice deontologico senza mai essere nemmeno redarguiti.

La realtà economica ci dice che tutti gli Ordini professionali – ad eccezione di quello dei medici, cui però non dovrebbe essere consentito lo stabilimento di alcuna tariffa professionale – dovrebbero essere cancellati e che le professioni dovrebbero potersi esercitare su un libero mercato regolamentato, dove il prezzo si forma spontaneamente. La stessa cosa dovrebbe valere per i venditori di qualsiasi merce, carburanti o farmaci, con le ovvie e dovute cautele per questi ultimi. Qualsiasi ragionamento economico contrario a questa elementare verità è giustificato soltanto dalla strenua difesa di una rendita ammessa dalla legge. E quindi, è dannosa per l’intero sistema economico.

 

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