“Suggestioni”. Anish Kapoor, il cuore pulsante della materia

Fino al 10 ottobre 2022 una grande mostra dedicata all’artista anglo-indiano

La stupefacente retrospettiva che Venezia dedica all’artista anglo-indiano Anish Kapoor presso le sedi delle Gallerie dell’Accademia e di Palazzo Manfrin dal 20 aprile al 10 ottobre 2022, se da un lato somiglia a un viaggio lisergico o a un’esplorazione dell’inconscio, dall’altro ci permette di sostare sulla soglia oltre la quale si può assistere al dis-velarsi del lato oscuro delle cose.

Viscerale, materica, thanatoerotica, speculare ed emofilica, sono gli aggettivi che riassumono questa esposizione, a partire dalle installazioni degli esordi fino a quelle concepite in occasione della mostra, alcune delle quali si fondono con gli spazi che le accolgono.

Tra le tante opere esposte, la serie Non-Obiect Black (2018-2021), che troviamo in una della sale dell’Accademia, si compone di alcuni forme bidimensionali, che al mutare della prospettiva, diventano oggetti a tre dimensioni. Questo effetto percettivo invita il visitatore a osservare queste opere di lato, assumendo quella postura prospettica che oltre un certo limine, permette di coglierne il lato nascosto. Quel lato che custodisce l’ombra delle cose, in cui risiede la loro verità, a-letheia, che solo uno sguardo eccentrico può cogliere, riportandola alla luce dal suo nascondimento.

L’artista in alcune opere di questa mostra testa per la prima volta il Kapoor Black, un colore realizzato con un materiale nanotecnologico innovativo, capace di assorbire più del 99,9% della luce visibile e tale da far sembrare le famose opere sul vuoto dell’artista, altrettanti buchi neri che risucchino al loro interno la materia circostante. 

In Pregnant White Whithin Me (2022) è invece lo spazio interno a estroflettersi e a fondersi con quello esterno, lungo una parete che assume la conformazione dell’addome di una donna incinta. 

Altre installazioni provocano una distonia percettiva che mette a soqquadro le abituali coordinate spaziali del nostro mondo. Dilatando, contraendo e invertendo la nostra immagine riflessa, attraverso un artificio di rifrazioni di specchi concavi e convessi, l’artista sembra farci varcare la soglia, al di là della quale, il mondo mostra il suo lato onirico, giocoso e allo stesso tempo perturbante.

Ma è sotto la pellicola superficiale e rassicurante delle cose, che esplode il sottofondo ctonio, la ricchezza amorfa e allo stesso tempo proteiforme della materia, sanguinolenta, viscerale, feto e uovo fatale, osso, muscolo e tessuto, che emoziona e affascina, nel momento in cui riconosciamo in essa, l’agglomerato di massa organica che al fondo siamo.

La mostruosità dell’amorfismo materico che si nasconde al di sotto dell’apparenza delle forme, risalta in alcune opere, in particolare in Internal Objects in Three Parts (2013-2015), dove la dimensione insostenibile del Reale, non filtrata da alcuna velatura o diaframma simbolico, raggela e fa inorridire, laddove, allo stesso tempo, l’innocenza della materia che si fa e si disfa, commuove.

E commuove di sicuro, di fronte al trittico pubico femminile, Portrait of Pink (2019), l’installazione The Innocents (2020), dalle cui informità emergono uova pronte a schiudersi o feti abbandonati, il cui impatto emotivo ci ri-consegna alla dialettica generativa di opposti principi, che risiedono nel cuore pulsante della materia.

Shooting into the corner (2008-2009), l’istallazione nella quale uno speciale cannone, creato dall’artista assieme a un team di ingegneri, spara proiettili di cera rossa da 11 chili ciascuno, ci investe invece come la scena intrisa di sangue di un teatro di guerra. Molte delle opere esposte grondano sangue, un fil rouge cromatico della mostra, assieme al blu e al nero, che arriva anche a tingere lo stesso cielo in Turning Water into Mirror, Blood into Sky (2003).

All’ingresso di Palazzo Manfrin, ci accoglie l’installazione Mount Moriah at the Gate of the Ghetto (2022), un’enorme massa rosso nera, che sprofondando dal soffitto, va a saturare lo spazio sottostante, come una colata lavica cristallizzata, un volume dall’altissimo peso specifico o una montagna capovolta, il monte Moriah citato nel titolo dell’opera. Quest’ultimo è il luogo, riportato nell’Antico Testamento, dove avvenne il sacrificio di Isacco e che la tradizione identifica con il Monte del tempio, noto anche come Spianata delle Moschee. L’opera, se da un lato è un tributo al Ghetto di Venezia, dall’altro ci ricorda come quel monte, a causa della sua importanza per le tre religioni monoteiste, sia uno dei luoghi religiosi più contesi al mondo e teatro di mai sopiti conflitti tra fedeli.

Di sicuro impatto escatologico, sono anche le tre sculture di alabastro, Gate (2021), simili a reperti di tipo “fantarcheologico”, iscritti da un esoterismo simbolico, che sembrano alludere  ad  altrettante porte dischiuse in direzione di universi altri. 

Alla fine di questa imperdibile mostra, si esce con un certo disorientamento cognitivo, sempre salutare, se propedeutico a un vacillamento dell’idolatrato ego, ma anche con una forte commozione che nasce dall’aver assistito, per un momento, al sollevarsi di quel velo di maya, che solo, rende sopportabile il tremendum che giace al fondo delle cose.

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