L’Aquila rinasce?

L’AQUILA – 4 luglio 2016.  Ore 8.15. 

Dalla stazione ferroviaria intravedo solo gru. Decine e decine di braccia metalliche ruotano nel cielo, riempiono lo spazio ristretto tra i monti, sollevano senza sosta carichi su carichi.

Scendo dal treno e tutto sembra “normale”, simile ad ogni stazione d’Italia fatta di binari, strisce gialle da non oltrepassare, cartelloni pubblicitari, bar e taxi all’uscita. Eppure uno strano insieme di rumori insistenti e a tratti striduli colpisce subito le mie orecchie. Sono cigolii vari, colpi di martello, tonfi improvvisi che orchestrano una musica disarmonica e fastidiosa. Mescolato all’insolita sinfonia un odore forte di polvere, sabbia e calce mi entra nel naso. Attraverso la strada ed entro da una delle porte dell’antica cinta muraria, fatta di rocce bianche e restaurata da poco, con tanto di targa dorata all’ingresso e relativi ringraziamenti di circostanza. Dopo qualche passo, mentre il rumore e l’odore acre aumentano di intensità, mi fermo davanti ad un cancello spalancato su un piazzale deserto e quasi del tutto ricoperto di erbacce.

E’ una scuola, sul muro ancora nitida la scritta “Istituto statale d’arte F. Muzi”. Sulle pareti invase dall’edera le crepe del sisma si rincorrono tra finestre rotte e murales colorati. Sopra il cornicione dell’atrio due aste di metallo sospese fanno da triste presagio ad un’Italia e ad un’Europa che qui non c’è. Affisse al portone d’ingresso tre locandine del 2008, a terra vetri, calcinacci e un manichino col busto separato dalle gambe, che guarda verso il cielo con un’espressione tesa. 

Mi sembra di vederli e di sentirli tutti gli alunni passati qui ogni giorno, su questo piazzale divenuto un reliquiario di oggetti perduti. Chissà da quanto tempo non suona più la campanella tra queste mura sventrate e le macerie sparse sul pavimento.

Mi inoltro per un breve tratto e, sulla destra, vedo alcune stanze -una probabile segreteria- con vecchi pc buttati a terra tra faldoni d’archivio e fogli sparsi in giro. Poco oltre ci sono alcune vetrine vuote, quelle stile anni ’70, ancora in uso in molte scuole, con dentro di solito ampolle di laboratorio, minerali e animali impagliati. Più in là 2 tele, su una c’è il ritratto spettrale di una donna dai capelli rosa. Mi guarda immobile e severa, bidella perenne di queste mura abbandonate. Nella penombra di un’altra stanza riesco a distinguere la sagoma cartonata di una delle donne del Guernica di Picasso, una figura femminile stravolta che urla, con al di sopra la lampada “dentata” ad illuminarla. Decido di non proseguire, troppa la tensione, il coinvolgimento emotivo e il pericolo che mi crolli addosso qualcosa. Esco guardando da lontano l’interno dei finestroni rotti della facciata con le aule vuote, i calendari appesi, le lavagne sbilenche e il crocifisso alla parete, come bolle sospese in un’attesa irreale.

Voglio trovare il centro della città, percorro a passi svelti una strada in salita affiancato dal continuo via vai dei camion delle ditte di costruzioni. E’ via XX settembre. Ai lati della strada le palazzine mostrano i chiari segni di quella notte, di quel 6 aprile 2009. Le case sono quasi tutte puntellate, con le impalcature e gli operai che, in molte, cercano di ricucire quegli strappi sul muro, quelle crepe, quei pilastri caduti. Mi colpisce vedere le serrande di questi condomini aperte, chiuse o mandate giù solo a metà, rimaste nel punto esatto in cui lo erano quella notte di aprile. Su una transenna che costeggia il marciapiede destro della strada vedo appese una serie di magliette, fiori, dediche e alcune fotografie: sono quelle delle ragazze e dei ragazzi della Casa dello Studente, venuta giù come un castello di sabbia. Una palazzina squarciata a metà, che fa mostra di sé senza pietà. Dalla strada si vedono ancora, 7 anni dopo, gli interni delle stanze, gli armadi color verde acqua sulle pareti del secondo e del terzo piano, le scrivanie e le sedie. L’Aquila mostra senza mezzi termini ancora oggi, anzi forse ancora di più, le sue ferite, le sue contraddizioni, le sue assurdità, quelle di quest’Italia che costruisce case di acqua e sabbia per i suoi giovani migliori. Le porte verdi d’emergenza sono diventate le pareti della casa e non hanno le scale perché sono state le prime a venir giù. Queste porte si aprono sul vuoto, sul nulla mentre sul muro un cartello ben visibile dice: “uscita di sicurezza”.

Giro a sinistra lasciandomi alle spalle questo monumento alla corruzione e al dolore, incontro sulla strada in salita un gruppo di operai dell’Europa dell’Est, noto che non solo le finestre delle case sono spalancate con i loro brandelli di tende, ma anche le porte di molti edifici semidistrutti sono aperte. Ne oltrepasso una con sopra la targa “Centro di Ascolto San Vincenzo dei Paoli”, entro con la riverenza con la quale si varca un sacrario nella prima stanza a destra, piena zeppa di libri accatastati l’uno sull’altro. Leggo qualche titolo – La vita di San Bernardino da Siena; Le tentazioni di Satana; Il Catechismo della Chiesa Cattolica… – e, dopo averli sfogliati velocemente, li ripongo con cura là dove erano, mentre penso che insieme agli uomini e agli animali anche i libri infondo si disperdono e, in un certo senso, muoiono dopo un terremoto tra la polvere e i tarli. E poi tutti quei libri buttati a terra sono testimoni anche essi di questa città distrutta, tra le loro pagine c’è la stessa terra che ha inghiottito L’Aquila in quella notte di primavera.

Esco in punta di piedi e, una volta fuori, continuo a salire fino a quando mi ritrovo nella piazza centrale. Seppur transennata la piazza è ben visibile e percorribile, le due fontane senz’acqua ne delimitano le estremità e tutto intorno le impalcature coprono le chiese e i palazzi antichi del centro. “L’Aquila rinasce” leggo sui poster che circondano gli edifici e quasi ci credo, specie quando lungo il corso principale trovo un bar aperto con torroni e dolci tipici in vetrina, caffè e cappuccini sul bancone. Chiedo un cappuccino e un cornetto, anche qui, però, in questi semplici riti quotidiani, trovo qualcosa di diverso, di straniante. C’è lo sforzo di riprendersi l’ordinaria normalità della vita, di una colazione al bar e di una pausa caffè, ma qualcosa che non torna, che non quadra lo si avverte. La sede di questo bar storico non è quella originale, provvisoriamente sono stati spostati su questo corso riaperto da poco, dentro gli sguardi dei proprietari non si può non scorgere un velo di tristezza e smarrimento, quasi come se ci stessero riprovando a ripartire, ma da dietro una grande prova generale, sul sipario di una simulazione di vita, con un senso di precarietà e di incertezza che si respira nell’aria. I clienti sono quasi tutti funzionari pubblici dei vicini uffici della Prefettura e della Banca, i discorsi dei cittadini, dispersi nelle New Town e che ogni tanto si affacciano qui dentro, sono fermi alle 3.32 del 6 aprile 2009, a quei 37 secondi fatali.

“Penso che ci vorranno minimo 50 anni per far tornare L’Aquila la città che era”, dice una signora seduta al tavolo del bar, rivolgendosi ad un uomo di circa 70 anni con gli occhi increduli e senza speranza. Dopo averli ascoltati mi avvicino e chiedo loro dove sia il Palazzo della Prefettura, quello con il colonnato classico e la scritta sbilenca, divenuto uno dei luoghi simbolo (anche per le sfilate dei vari leader mondiali) del terremoto di Abruzzo. E’ proprio dietro al bar mi dice, in 2 minuti sono lì a guardare i caratteri riallineati “PALAZZO DEL GOVERNO” sopra le colonne puntellate.

Girovago ancora per le stradine secondarie del centro, leggo le targhe con i nomi delle vie e le insegne dei negozi chiusi. Mi fermo davanti a tre serrande sbarrate e a due vetrine vuote con sopra scritto “L’intimo”. Ecco è proprio questa parola, l’intimo, nel suo significato etimologico – ciò che è più dentro, più in profondità – che dopo un terremoto viene fortemente violato: l’intimo delle case, le stanze senza mura e le porte aperte esposte allo sguardo di tutti, l’intimo delle chiese sventrate, delle statue amputate, l’intimo degli affetti sconvolti e troncati, degli sguardi persi.

L’Aquila rinasce, forse qualcosa di muove nel mezzo dei 263 cantieri aperti, ma è questo “presente” che non ci sta proprio. Rinascerà, un domani, nel futuro, forse. Ma non rinasce ora, non rinasce qui, tra queste ferite aperte. Sembra domandarselo anche la statua di Cristo, issata sulla terrazza di un convento lungo la via che mi riporta alla stazione. Dietro la statua una gru, davanti, dritta al suo sguardo, la città.

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