Fatte le elezioni, si chiudono i seggi, si aprono le urne, si contano i voti, si proclamano gli eletti e subito comincia l’analisi del voto, vincitori e vinti sotto la lente dei commenti.
Alla Mostra del cinema di Venezia, il verdetto della giuria internazionale che ha assegnato i premi principali ha lasciato insoddisfatti molti osservatori. Alcuni riconoscimenti sono sembrati frutto di compromessi, di scelte che in qualche misura hanno fatto prevalere sulla qualità del film l’opportunità di premiare questa o quella cinematografia. Cominciamo dalle nostre opere in concorso.
Molte attese della vigilia erano per La grazia, il film di Paolo Sorrentino che ha protagonista un personaggio dai molti significati: “Verosimile ma rigorosamente inventato” lo aveva definito il regista. E’ un presidente della repubblica che sta per concludere il suo settennato, e deve decidere se concedere la grazia a due assassini e promulgare una legge sull’eutanasia.
Due argomenti ostici per l’attuale governo che con la magistratura è in costante conflitto, e che di certi argomenti come la legge sul “fine vita” preferisce non si parli troppo.
Premiare il film di Sorrentino sarebbe stato per Venezia una scelta politica. Ma ignorarlo non si poteva: ecco, dunque, il premio non al film ma al protagonista, Tony Servillo, che la sua Coppa Volpi per l’interpretazione maschile se l’è pienamente meritata anche se suona come premio di consolazione per il suo regista.
Anche la coppa Volpi per la migliore attrice suona come omaggio, o una strizzatina d’occhio a Xi Jinping, il leader cinese che oggi sembra onnipotente: la pur brava Xin Zhilei l’ha meritata anche se il film che ha interpretato da protagonista Il sole sorge su tutti noi, firmato da Cai Shangjun, è a giudizio di molti critici un melodramma ben recitato ma non da premio internazionale.
Dimenticato Sorrentino, a chi dare il Leone d’oro? Blandito X Jinping, restava da omaggiare in qualche modo Donald Trump: ecco, dunque, il massimo premio a Father mother sister brothers, diretto da Jim Jarmush che nel ricevere il Leone d’oro ha detto “Non mi aspettavo certo di vincere!”.
Ed era sincero. Un altro titolo supervalutato dalla giuria è The Smashing machine, sulla figura di un campione di lotta libera, diretto da Benny Safdie anche lui ha detto: “Non credevo di vincere!”. Anche se il film non è niente male.
A questo punto, era scontato che il Leone d’argento Gran Premio della giuria andasse per il film The voice of Hind Rajab alla regista tunisina Kaouther Ben Hania, che ha raccontato con grande effetto la storia della bambina palestinese che al telefono implora “venite a prendermi” mentre è intrappolata con i cadaveri dei cuginetti in una macchina mitragliata dai soldati israeliani.
Un premio che è un doveroso omaggio alla tragedia di Gaza che la Mostra di Venezia non poteva ignorare se non altro perché si era vista arrivare fin sulla soglia del red carpet una folla di manifestanti pro-Pal.
Ma le guerre attualmente in corso sono due, oltre alla Palestina c’è anche l’Ucraina, un dramma che al Lido non ha avuto uguale trattamento: che qualcuno si sia preoccupato di non irritare con un film sulle ragioni di Zelensky il già intrattabile Vladimir Putin?
Facile insinuarlo. “A pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca” opinava Andreotti, al quale certo sarebbe piaciuto far parte della giuria di Venezia, per studiarne gli umori, lui che aveva sentenziato “I panni sporchi si lavano in famiglia”, dopo aver visto nel 1946 Sciuscià di Vittorio De Sica e avergli negato da sottosegretario allo spettacolo un piccolo premio ministeriale.
Un altro premio speciale della giuria è andato ad un film italiano che dopo tutto è un documentario: Sotto le nuvole di Gianfranco Rosi, un regista figlio d’arte: suo padre è quel Francesco Rosi che nel 1963 a Venezia vinse il Leone d’oro con un film potente, Mani sulla città, sulla speculazione edilizia e sul malcostume dell’epoca, non molto diversi dai nostri giorni.
Ma di film italiani in concorso altri avrebbero meritatamente aspirato ad uno dei premi maggiori. Uno per tutti: il bel film di Pietro Marcello sull’ultima parte della vita e della carriera dell’attrice di teatro Eleonora Duse, interpretata da una bravissima Valeria Bruni Tedeschi che, finalmente, per la stampa rosa non è più soltanto la sorella della premiere dame di Francia Carla Bruni, malmaritata all’ex presidente francese, ma una brava professionista sia davanti che dietro la macchina da presa.