Libri. “Via Livorno”, un’autobiografia – 4: “La lettera bruciacchiata di Ingrid Bergman”

Era il 1950. La clinica “Villa Margherita” era assediata dai fotografi e dai giornalisti in attesa della nascita del figlio di Ingrid Bergman, l’attrice svedese che aveva lasciato Hollywood per correre da Roberto Rossellini, affascinata dal suo film “Roma città aperta”. La nascita di Roberto, detto Robertino, per non confonderlo con il celebre padre, fu un avvenimento soprattutto mediatico: con due genitori così, quel bimbo era un boccone ghiotto per i rotocalchi dell’epoca.

Per Ingrid Bergman il regista romano aveva immediatamente lasciato Anna Magnani, con la quale aveva intessuto una burrascosa relazione: lei non lo perdonò mai. Tutto era cominciato con la famosa lettera che la Bergman aveva scritto a Rossellini. Una lettera o un telegramma? Non si è mai chiarito. Il testo comunque venne tramandato così: “Signor Rossellini, sono una ragazza svedese che vive in America da dieci anni, che parla bene l’inglese, un poco di francese e in italiano sa dire solo ‘Ti amo’.  Ho visto il vostro film Paisà, ne sono entusiasta e sarei onorata di avere una particina nel vostro prossimo film. Firmato: Ingrid Bergman”. Nell’autobiografia in cui Marcella De Marchis, prima moglie di Rossellini, ricorda non solo i sei anni di matrimonio ma anche i quaranta vissuti nell’ammirazione e nella collaborazione con il regista fino al giorno della sua morte, il figlio Renzo racconta che, non avendo altro indirizzo, la Bergman spedì la lettera a “Roberto Rossellini – Minerva Film – Rome – Italy”. E svela un particolare che aggiunge un altro pizzico di leggenda: si vuole che la lettera sia giunta all’indirizzo scritto sulla busta il giorno stesso in cui la Minerva Film prese fuoco come un cerino (“come un minerva”, notò un bello spirito dell’epoca accennando all’omonima scatola di fiammiferi allora in commercio). L’incendio, innescato forse da una sigaretta accesa lasciata cadere per negligenza, fu alimentato dai rotoli di pellicola di allora, che pur chiusi nelle scatole di latta delle cosiddette “pizze”, erano molto infiammabili a causa del nitrato d’argento che ne faceva delle bombe incendiarie. Era sabato pomeriggio, gli uffici stavano chiudendo ma le fiamme divampate in pochi minuti intrappolarono gli impiegati, che si buttarono dalle finestre. Non poche furono le vittime. I vigili del fuoco lavorarono a lungo prima di domare il fuoco che aveva distrutto completamente la palazzina,  successivamente demolita.

       Quel giorno, il 14 maggio 1947, arrivai a scuola molto tardi. Ma non ero il solo: i ritardatari erano tutti ragazzini che per andare all’istituto Massimo in piazza dei Cinquecento avevano preso il tram della linea 7, “piazza Bologna – Stazione Termini”. La Minerva Film aveva sede in una palazzina dei primi del Novecento in via Palestro, all’angolo con via Marghera e il mio tram passava proprio li.  La notizia fu data con ampio rilievo dalla radio e l’indomani, domenica, fremevo all’idea di vedere la Minerva Film e le conseguenze dell’incendio: sarei andato a scuola anche domenica. La mia morbosa curiosità fu appagata il lunedì: lo scheletro ancora fumante della casa cinematografica fu un’immagine che non ho mai dimenticato. Di nuovo arrivai a scuola in ritardo perché in via Palestro c’erano i vigili del fuoco che demolivano le parti pericolanti e il tramviere fece una sosta prolungata. Tentai di spiegarlo al sacerdote che, scuro in volto sul portone del “Massimo”, accoglieva i ritardatari, ma non volle sentire ragioni e mi presi il temuto biglietto di punizione.  Quella volta, però,  ne era valsa la pena. 

Leggenda vuole che fra le rovine della Minerva Film qualcuno recuperasse la lettera della Bergman, ” anche un po’ bruciacchiata”, ricorda Renzino Rossellini, chiosando il libro della madre che si chiude con la morte di Rossellini, nella bella casa di via Caroncini ai Parioli. Ero accorso anche lì, non più da scolaretto curioso, ma da giornalista, cronista dell’Ansa.  Era il 3 giugno 1977. Roberto Rossellini era morto per un attacco di cuore fra le braccia della moglie Marcella, che l’ha amato per tutta la vita pur assistendo alla girandola di mogli e di amanti con cui il regista di Roma città aperta ha movimentato la sua vita privata. Avevo avuto occasione di intervistarlo nella sua ultima stagione creativa, quando deluso dal cinema (nessuno gli offriva più film da fare: pur apprezzatissimo in Francia, in Italia non era molto amato dall’industria cinematografica per la quale aveva una scomoda fama di uomo di sinistra). Al suo funerale c’erano Andreotti, Fanfani, Aldo Moro, ma anche Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta e Amerigo Terenzi della direzione del Partito Comunista.

  Per la televisione, allora in fase evolutiva, Rossellini stava girando le Vite di grandi uomini del passato. Aveva già girato: L’età del ferro (in cinque puntate, nel 1965), La presa di potere di Luigi XIV (1966), Gli Atti degli Apostoli, (1968, cinque puntate), La lotta dell’uomo per la sopravvivenza, (1970, dodici puntate) e aveva illustrato successivamente la vita di Socrate, di Blaise Pascal, di Agostino d’Ippona. Dal 1964, vent’anni dopo “Roma città aperta”, Rossellini aveva scritto di aver visto nella televisione lo strumento ideale “per aprire con il più vasto pubblico un dialogo sui punti nodali della storia e la scienza umana a partire dalle origini”. 

Al Rossellini televisivo avevo chiesto un’intervista per Il Giornale d’Italia, dove curavo le pagine degli spettacoli, e andai a trovarlo nella sua villa sull’Appia Antica. A fare gli onori di casa c’era Sonali Das Gupta, la moglie indiana dalla quale aveva appena avuto una figlia, l’ennesima.  Circondato dai suoi cani, Rossellini mi parlò a lungo delle sue idee sulla missione educativa della televisione e sulla crisi inarrestabile del cinema italiano, mostrandosi tutt’altro che rassegnato all’inoperosità. L’intervista riempì una pagina intera, e l’indomani in redazione mi arrivò un telegramma dell’intervistato che si complimentava e mi ringraziava. Una persona squisita, un uomo di grande fascino, per questo le donne l’hanno assediato per tutta la vita. Soprattutto Anna Magnani. Quando stavano insieme, Rossellini la portava spesso a pranzo a Ladispoli, una cittadina del litorale laziale, che più volte ricorre nelle cronache della sua sempre più vasta famiglia. Anche su questo ho un preciso ricordo d’infanzia.  Mio padre sceglieva Ladispoli come meta per le sue fughe da Roma, fughe innocenti, con moglie e figlioletto. Un giorno mentre eravamo in un ristorante sotto una pergola, vediamo arrivare una macchina scoperta con Rossellini e una bella ragazza bionda al suo fianco.  Senza dargli tempo di scendere, un cameriere si avvicina al regista e gli sussurra: “Dottò, a un tavolo dentro c’è la Magnani”. Il ”dottore” non se lo fece dire due volte, ingranò la marcia e via, verso un altro ristorante. La bionda, manco a dirlo, era Ingrid Bergman, che di lì a poco avrebbe preso il posto di Nannarella sia nel cuore sia sul set del regista romano, dongiovanni impenitente.  (continua)

Da “Via Livorno”, La Quercia editore, autobiografia di Sandro Marucci, giornalista RAI e tutor della scuola di giornalismo dell’università LUISS 

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