Dai diamanti non nasce niente

RAVENNA – Non è da oggi che nutriamo dubbi sul sistema giudiziario e sulla sua capacità di arrivare alla ben che minima verità processuale. Lo diciamo, si badi bene, con amarezza e senza il ben che minimo retro pensiero ma, soltanto, guidati dalla constatazione che, come tutte le attività degli uomini, anche quella giurisdizionale, dell’amministrazione della Giustizia in nome del popolo, nel sistema capitalistico risente degli interessi delle forze in campo; della malferma volontà di carattere degli esseri umani e dei “vincoli” e delle “garanzie” democratiche, tra le cui maglie s’infilano i malviventi veri.

Non ci si fraintenda, non pensiamo ad un sistema “cinese” di amministrazione della giustizia né, tanto meno, auspichiamo una diminuzione delle garanzie costituzionali. Ci limitiamo – ci sia consentito – soltanto a prendere atto che l’amministrazione della giustizia s’infrange davanti ai troppi: “non so; non ricordo”; alle troppe “facoltà di non rispondere”; alla mole di false testimonianze (più o meno retribuite) con cui si “addomestica” la verità processuale e, purtroppo, non solo quella.

Ma, ancor di più, la cosa che più ci avvilisce e la continua constatazione che, a qualsiasi latitudine, basti avere i soldi per farla franca e che il raggiungimento dell’impunità è direttamente proporzionale alla quantità di contante di cui si dispone con cui si riesce a tacitare coscienze e a pagare “principi del foro”.

Attenzione, almeno per questa volta non ci stiamo riferendo al capo (pro tempore) del governo italiano che, peraltro, unisce alla forza del denaro la forza del potere mediatico e della dilagante imbecillità che gli ha consentito di piegare ai suoi interessi, non solo il codice penale ma, dopo la norma sulle sentenze da 20 milioni di euro, inserita nella manovra economica, anche quello civile.

No, ci riferiamo, in questo caso ad uno degli uomini più potenti della terra (almeno dal punto di vista dell’economia), a quel DSK, ex direttore del Fondo Monetario Internazionale e alle sue disavventure sessuali in terra americana.

Non vogliamo, ovviamente, in alcun modo censurare il comportamento del Procuratore dello stato di New York che, stando alla legislazione americana e alle circostanze del “presunto” stupro ai danni della cameriera del Sofihotel, si troverebbe a dover sostenere la pubblica accusa basandosi solo sulla dichiarazione della donna, bugiarda impenitente.

La cosa che più ci angoscia è la consapevolezza del fatto che, fin dal primo momento, gli avvocati della difesa, alcuni tra gli uomini meglio pagati dell’occidente, non si sono minimamente premurati di dimostrare l’innocenza, o meglio la non colpevolezza del loro assistito. No, costoro, hanno avuto come unica preoccupazione quella di demolire l’immagine della donna stuprata da DSK, scavando nel suo passato di povera crista, di mendace per fame.

Poco importa che la hostess dell’aereo, su cui DSK salì dopo il presunto stupro, abbia riferito degli apprezzamenti sul suo culo fatti dal direttore del FMI; poco importa che, ancora oggi, un’amica della figlia dell’ex candidato all’Eliseo, abbia confessato le presunte avance sessuali di cui è rimasta vittima da parte di DSK.

Tutto ciò non conta. Non è opponibile nel Tribunale americano. Quel che conta, e che basterà a prosciogliere DSK, è solo l’inaffidabilità della presunta vittima, la cui “parola” è screditata a tal punto, da non potere essere presa a base per qualsivoglia procedimento penale.

Garantisti come siamo sempre stati, anche quando quelli (presunti) di oggi invocavano leggi speciali e procedure parallele, confermiamo la nostra preferenza ad avere un malvivente in più fuori dal carcere che un solo innocente dietro le sbarre.

Questo vale anche per DSK e la sua rete di protettori. Ma ci si lasci dire che, a conti fatti, il monito di De Andrè, comincia davvero ad andarci stretto.

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