I venti di guerra rischiano di far sparire la storia dell’Africa Mediterranea

ROMA – Africa, una parola che sempre più spesso riecheggia nella nostra quotidianità. La sua vicinanza “fisica” contrasta con la “lontananza” ideologica e culturale sebbene il mare che ci separa, in realtà, ci ha sempre uniti.
A voler utilizzare le parole di Ryszard Kapuscinski, «l’Africa è un continente troppo grande per poterlo descrivere. È un oceano, un pianeta a sé stante, un cosmo vasto e ricchissimo. È solo per semplificare che lo chiamiamo Africa. A parte la sua dimensione geografica, l’Africa non esiste».

Non risulta dagli scritti, che gli antichi Egizi avessero un nome per indicare tutta l’Africa, di cui del resto non conoscevano che qualche regione. Essi chiamavano Lbu (Libi) i popoli ad Occidente dell’Egitto e Nebes (Neri) quelli a Sud del loro paese, che furono poi chiamati dai Greci, fin dai tempi di Omero, gli Etiopi (Facce Annerite). Dagli scritti di Erodoto è possibile desumere che nel mondo greco del secolo V a.C., erano invalse due denominazioni: “Libia” per indicare sia il territorio del Libi, sia il resto del continente; “Etiopia” per i territori a Sud dell’Egitto e comunque per tutti quelli abitati dai Neri.
La parola “Africa” deriva, con ogni probabilità, dal termine fenicio faraqa, che esprime il concetto del separare. Infatti nel secolo IX a.C., coloni fenici provenienti da Tiro fondarono, presso l’attuale Tunisi, una città che chiamarono Qart-Hadasht (Città Nuova), ossia “Cartagine”. Fu questa la prima città fenicia dell’Africa settentrionale indipendente dalla madrepatria, e pertanto considerata “separatista”, e solo al suo territorio fu dato il nome di Africa.

Con questi limiti, il nome fu adottato anche dai Romani, che in seguito lo estesero ad altre regioni attigue e, nel secolo VI, indicava ormai tutto il Continente. Successivamente fu usato dai Greci nella forma Afrikè e dagli Arabi nella forma Ifriqiya.

Dopo tanti secoli di battaglie e di conquiste insanguinate, il 2011 è stato segnato da nuovi venti di guerra che hanno scosso alcuni Stati africani del Mediterraneo, quelli che siamo abituati a vedere sui depliant turistici come meta di viaggio e di cui solitamente non consideriamo il tipo di governo. In Tunisia, il regime di Zine El-Abidine Ben Ali, è ormai stato rovesciato dai ribelli e la medesima sorte è toccata a Muhammad Hosnī Sayyid Ibrāhīm Mubārak in Egitto, mentre il sangue scorre ancora in Libia dove il colonnello Muammar Saddam Osama Alì Agca Gheddafi oppone resistenza con le sue milizie agli attacchi delle forze Nato. Ma il nuovo vento africano sta soffiando sempre più forte, ed è un vento caldo, di protesta, di cambiamento. Dall’Egitto alla Tunisia, passando per la Libia, anche nello Yemen, l’Iran, il Bahrein, l’Algeria, la Siria e la Giordania dove la gente chiede riforme e vuole lasciarsi alle spalle i soprusi e le angherie di governi che di democratico hanno ben poco. Ed il vento continua a soffiare anche sul Marocco dove migliaia di manifestanti hanno sfilato pacificamente per le strade di Casablanca, di Rabat e di altre città del Paese per chiedere la limitazione dei poteri del re Mohammed VI ed una nuova Costituzione. La manifestazione era stata convocata sul Social Network Facebook ed era stata ribattezzata “Movimento del 20 febbraio”. Manifestazione pacifica si è detto, che però, in alcune zone del Paese è degenerata. Scontri a fuoco e vite disperse, ma insieme ad esse anche la perdita di un bene, quello storico, che è conservato nelle “pietre” poste nel corso di tanti secoli.

Sono anni però che il Patrimonio archeologico dell’Africa ed in particolare della Tunisia si sta disperdendo e tra le voci più allarmate c’è quella di Houcine Tlili, storico d’arte e ricercatore di estetica presso l’Institut National du Patrimoine. «Il beilicato della cultura musulmana non ha mai dato importanza al patrimonio storico della Tunisia. – sostiene la Tlili- Le rovine di Khirbat non interessano nessuno soprattutto dopo essere state depauperate di tutto quello che poteva essere riutilizzato in grandi dimore e sontuosi palazzi, come nel caso delle colonne di marmo».

Non meno grave è la situazione oggi in Libia dove Maurizio Giufrè, architetto e componente di un’équipe inviata per collaborare ad interventi di restauro dell’edilizia fascista, ne ha raccontato le meraviglie di Cirene, l’Atene d’Africa, dell’antica città romana di Sabratha, fondata dai Fenici, e delle imponenti e lussuose costruzioni di Leptis Magna. «Sulle coste della Tripolitania e della Cirenaica si alternano terminal petroliferi e piccoli villaggi di pescatori, aree militari severamente protette e vivaci centri urbani ma, – scrive Maurizio Giufrè- soprattutto, su quelle sponde di sabbie e rocce tenere resistono all’erosione del tempo e ai cataclismi, non solo naturali, vaste e importanti aree archeologiche di straordinario valore storico e artistico. Sabratha, Leptis Magna, Cirene, Apollonia sono le località più note che già l’Unesco, nel 1982, dichiarò patrimonio dell’umanità e che con molte difficoltà sono state tutelate fino a oggi dal Dipartimento delle Antichità con le poche risorse messe a loro disposizione dal colonnello Gheddafi». È stata una fortuna avere visitato le antiche vestigia romane e greche della Libia poco prima che esplodesse la guerra civile, il cui esito resta incerto.

Gli scontri si svolgono soprattutto nelle aree costiere libiche, e non si può non includere nei nostri pensieri anche quel ricco e unico patrimonio monumentale così fragile e vulnerabile rappresentato dalle antiche vestigia della nostra “quarta sponda”. La specificità di questo enorme patrimonio archeologico è la sua collocazione geografica, che non è isolata bensì integrata alla vita agricola ed incrocia i modesti commerci dei centri urbani sorti nelle loro vicinanze. Piuttosto, la coesistenza con quelle rovine è avvenuta tra l’indifferenza e l’ignoranza che un po’ dovunque hanno compromesso il paesaggio circostante con un’edilizia povera e autocostruita.

La strada da Tripoli per Sabratha è una fila interminabile di costruzioni basse e arrangiate che, come trincee, sbarrano lo sguardo verso la campagna e all’interno delle quali si svolge ogni genere di commercio; quando terminano è facile, compiendo una modesta deviazione, trovarsi davanti l’ingresso che immette nell’antica città romana, già colonia fenicia, di Sabratha. Il museo romano restaurato due anni fa con il contributo dell’Eni dopo un lungo periodo di abbandono, è un’architettura del razionalismo italiano dei primi anni ’30, testimonianza dell’impegno degli archeologi italiani che dal 1920 hanno scavato e ricostruito molto in questo sito. È nel museo che si conserva il mosaico pavimentale della Basilica giustianea (I sec. d.C.), che Cesare Brandi definì “la più bella opera d’arte, in via assoluta, che sia superstite in Tripolitania”, non capendo come un simile capolavoro potesse essere stato pensato per un piano terra come non accadde né a Santa Sofia né a San Vitale. È però il teatro romano (risalente al 119 d.C.) il monumento che per la sua mole, catalizza l’attenzione del visitatore. Italo Balbo volle che fosse ricostruito con solerzia dagli archeologi Giacomo Giusti e Giacomo Caputo ma quanto fedelmente, è oggetto di qualche dubbio.

Il teatro emerge su una distesa di rovine sparse sul terreno con la sua scena composta da tre ordini di colonne architravate che si infrange sul fondale azzurro del mare. Un’alta recinzione metallica lo circonda sul retro dell’emiciclo: la sola protezione in un’area dove i reperti marmorei affiorano sul bagnasciuga, i mosaici si distendono come tappeti all’interno delle rovine delle terme e delle domus e le colonne, in fila o a gruppi, sono come inutili sentinelle su un orizzonte che adesso immaginiamo attraversato dall’aviazione della Gran Jamahiriya diretta a bombardare gli insorti. Nel riaprire la mappa di Leptis Magna crescono le preoccupazioni sui rischi che corre il patrimonio archeologico libico. A Leptis più del sessanta per cento dei reperti sono lì, ancora sul posto, ma soprattutto impressiona la sua estensione, tanto che sempre Brandi scrisse,quando la vide per la prima volta, “è una cannonata” anche per chi “viene da Roma, e conosce Ostia e sa a memoria Pompei”. La città fondata anch’essa dai Fenici come Sabratha divenne “magna” dal 193 d. C. con Settimio Severo, che era nato lì. In soli quindici anni questo imperatore “militare” ne fece il trionfo dell’arte tardoromana. C’è da augurarsi davvero che ci sia consentito ancora continuare a studiare Leptis Magna perché rappresenta un laboratorio unico al mondo per l’arte e l’architettura tardoantica.

Come unica è anche Cirene, denominata l’Atene d’Africa, posta su un vasto altopiano davanti al mare, con ai lati e ai fianchi il deserto che la separa dal continente africano e che l’ha sempre resa, fin dalla sua fondazione nel 631 a.C. da parte di coloni terei, sponda insulare della Grecia. Lo studio scientifico della complessa mappa di Cirene da parte degli archeologi italiani risale alla prima decade del secolo scorso, anche se è dal Settecento che se ne conoscono le rovine. Salire sull’Acropoli da Nord con alle spalle il mare e Apollonia comporta la meraviglia di attraversare una vasta distesa terrazzata di tombe rupestri (VI sec. d.C.) con prospetti architettonici che sono solo l’anteprima di uno spettacolo eccezionale, che si gode tra i resti del Santuario di Apollo, chiuso sul lato occidentale dal Teatro Greco e su quello orientale dalle Terme, avendo alle spalle la Grotta Oracolare. Da subito il viaggiatore ha chiaro il fatto di trovarsi al centro di una stratificazione progressiva e densa non solo di blocchi di pietre, ma di miti e leggende che trasudano dalla quantità di altari, reciti, sacelli eretti ovunque dentro e fuori una quantità di templi e santuari per una moltitudine di divinità accolte tutte tra l’Acropoli e l’Agorà, così come i primi Greci fondatori di Cirene seppero convivere con le tribù libye.

È difficile, guardando alle testimonianze dell’antichità, orientarsi senza sgomento nella guerra civile libica, tra le violenze e le paure che oggi vive la popolazione, pur considerando la sua storia recente e le sue tradizioni tribali. Così com’è arduo immaginare l’isolamento e la solitudine della Libia, epicentro, nell’antichità, del più vasto scambio culturale e commerciale del Mediterraneo.
«L’europeo di passaggio in Africa- commentava Il giornalista e scrittore polacco Ryszard Kapuscinski – di solito ne vede solo una parte, ossia l’involucro esterno, spesso il meno interessante e forse anche il meno importante. Il suo sguardo scivola sulla superficie senza penetrare oltre, quasi incredulo che dietro ad ogni cosa possa nascondersi un segreto e che questo segreto pervada le cose stesse. Ma la cultura europea non ci ha preparato a queste discese nel profondo alle fonti di mondi e culture diversi dai nostri.

L’Africa è un coacervo delle più svariate, più diverse e più contrastanti situazioni. Uno dice: “Là c’è la guerra”, ed ha ragione. Un altro dice: “Là c’è la pace”, e ha ragione anche lui. Tutto dipende infatti dal dove e quando. Ma di tutta questa varietà, di questo mosaico cangiante composto di sassi, ossa, conchiglie, ramoscelli e foglioline rimane ancora molto. Più lo contempliamo e più ci accorgiamo di come sotto i nostri occhi le parti di questo puzzle cambino posto, forma e tinta, finché non sorge uno spettacolo che ci abbaglia con la sua varietà, la sua ricchezza, il suo caleidoscopio di colori».

La guerra, l’impronta lasciata dal sangue, conduce ad un concetto di viaggio difficile da abbracciare nella sua complessità. Il porto è un luogo affascinante per quelli che partono e per quelli che ritornano, che hanno la forza di volere, il desiderio di viaggiare ed arricchirsi. Questo porto, immaginario, descritto in questa frase di Baudelaire, è quel luogo che scopriamo di possedere dentro ognuno di noi, un luogo affascinante e irrazionale in cui l’animale sociale uomo, ritrova il suo riconoscimento e la sua utilità nell’incontro con l’altro. Oggi la guerra nelle terre d’Africa deve risvegliare quei sentimenti di appartenenza verso una storia comune e per fare ciò occorre partire con la “valigia vuota di quelle immagini sull’Africa che abbiamo già pensato dentro di noi” come disse un missionario comboniano, per riportare “più cose possibili” contribuendo a conservare una memoria intatta per il diritto dei posteri.

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