Mobilitazioni docenti seconda fascia contro riforma Renzi, ovvero il dialogo del muro

ROMA – Le nuvole coprono di grigio il cielo serale di una Roma asfissiante quando le varie delegazioni degli abilitati di seconda fascia escono dal palazzo di Montecitorio. Sui loro visi lo stupore, l’incredulità, la rabbia, la delusione si mescolano come colori nell’acqua. Sono stati oltre due ore ad illustrare ai rappresentanti politici di PD, Forza Italia, M5S tutte le criticità di una riforma che, al di là dei fari abbaglianti degli annunci, vuole “estirpare come un batterio” 80.000 docenti abilitati di Stato.

Un muro, dicono, abbiamo trovato davanti a noi un muro.

Il dialogo nell’era renziana farebbe rivoltare, almeno sino ad oggi e almeno apparentemente, Hegel nella sua tomba. Altroché sintesi, altroché ascolto. Un muro. Ed è su quel muro che noi dovremmo attaccare i cartelli che ancora abbiamo in mano con la scritta: “VENDESI ABILITAZIONE, MAI USATA, COSTATA MERITO, FATICA, SOLDI”.

Le graduatorie ad esaurimento (Gae) devono essere chiuse una volta per sempre e in un anno, a voi assicureremo il concorso (l’ennesimo per gli abilitati TFA!) dicono. Inaccettabile per loro la proposta di un doppio canale di reclutamento, che possa consentire l’immissione in ruolo per concorso, ma anche per scorrimento dalla seconda fascia, almeno in questa fase transitoria. Irrilevante per loro il fatto che, nella messa a regime dell’organico di fatto, che assorbirà i 150.000 docenti delle Gae, oltre 80.000 docenti si ritroveranno dall’oggi al domani senza un lavoro, senza neppure più la possibilità concreta di fare le supplenze. Non conta il fatto che, a parità di titolo, agli uni sia assicurato il ruolo e agli altri la morte lavorativa per inedia nella seconda fascia d’istituto. 

E pensare che nelle Gae, oltre agli abilitati SSIS e ai vincitori di vecchio concorso, ci sono anche docenti che mai si sono sottoposti ad una valutazione. Sono coloro che hanno usufruito delle sanatorie abilitanti senza selezione del 1999 e del 2005, e che avranno a breve il ruolo. Ci sono poi anche liberi professionisti parcheggiati lì da anni, persone che nella vita fanno tutt’altro e che si vedranno recapitare il ruolo come un regalo inaspettato. 

Non interessano le obiezioni verso un sistema che immetterà in ruolo così tanti docenti da classi in esubero che sarà necessario “spostarli” su classi affini. Ma può un docente di arte insegnare bene storia? E il concorso che ci viene assicurato perché mai dovrebbe essere aperto anche ai NON abilitati prima del 2001? A cosa è servito allora abilitarsi? A rimpinguare le casse universitarie? Tutti questi sono dettagli trascurabili per la nostra classe politica. La sentenza della corte europea, che condannerà lo Stato per aver reiterato contratto a tempo determinato per più di tre anni, sta per arrivare. E in qualche modo devono correre ai rimedi. Come? Immolando sull’altare dell’assunzione dei docenti delle Gae gli 80.000 docenti della seconda fascia, colpevoli solo di aver conseguito l’abilitazione nell’anno sbagliato. 

A conferma insomma di ciò che, non più di qualche giorno fa, diceva Enrico Mentana dalla sua pagina facebook a commento delle linee guida della riforma della scuola: “non essendo sindacalizzati, i giovani italiani non hanno voce nei tavoli in cui si decide il loro destino. In ogni trattativa o confronto siedono rappresentanti di lavoratori assunti, precari, cassintegrati, disoccupati, esodati, pensionati. Chi è dentro è dentro, chi è fuori non ha voce né chances…” 

Sono queste le posizioni emerse dall’incontro con i partiti politici. Posizioni straordinariamente concordi ed uniformi tra PD e PDL, oramai diventati un mono partito per la straordinaria identità di vedute, e non solo sulla scuola. 

E’ questo il dialogo dell’era renziana? E’ questo muro che i nostri colleghi si sono trovati davanti? 

La sera è scesa. Fulmini e tuoni illuminano a tratti il cielo di Roma. Sto tornando a casa, dopo questa prima giornata di mobilitazione. Qualcosa mi dice che, nonostante tutto, quel muro lo abbiamo scalfito, almeno un po’.

Francesco Pettinari

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