Coppa europea. Alla faccia del fair play, una lezione di stile

Battere, contro ogni previsione, la nazionale inglese di calcio alla finale del campionato europeo è stata un’impresa sportiva che resterà negli annali.

Ma è stata soprattutto una lezione di stile che l’Italia ha dato ad una nazione e ad un popolo che resterà nei libri di storia di questa nostra tormentata epoca europea.

Non è solo una questione sportiva, di cui si occuperanno a lungo le cronache calcistiche, ma un episodio significativo di una realtà che è salita alla ribalta nel modo più imprevisto.

 Partiamo dall’inizio: gli inglesi, che a torto o a ragione si considerano depositari del verbo calcistico,  arrivando in finale con la loro venerata nazionale nel campionato europeo, erano convinti di vincere, soprattutto quando si sono trovati a dover contendere il titolo, al quale aspirano da decenni, alla nazionale di un Paese  che subito non hanno considerato degno di tanto onore. “L’Italia, figuriamoci…”, si leggeva nei commenti della vigilia. Al punto di commettere qualche ridicola imprudenza che gli si è ritorta contro. A cominciare dal primo ministro Boris Johnson che alla vigilia della partita decisiva ha tappezzato di bandierine e di scritte calcistiche il portoncino di Downing Street, la storica sede del premier britannico da dove siamo soliti veder uscire uomini politici di alta levatura, da Churchill in giù, come fosse il bar dello sport del quartiere. Ve lo immaginate il presidente della Repubblica Mattarella che imbandiera il palazzo del Quirinale, o il capo del governo Draghi che infioretta di stendardi azzurri da stadio l’austero palazzo Chigi?  E questo non dopo aver vinto il titolo europeo ma alla vigilia, come fosse scontato che noi avremmo perso e loro avrebbero vinto. Questo hanno pensato gli inglesi con la sicumera del popolo calcisticamente eletto e cioè che non avrebbe potuto non vincere. 

Perfino la regina Elisabetta si è fatta traviare dal facile entusiasmo dei falsi profeti, e alla vigilia dell’incontro ha scritto di suo pugno, cosa che in verità non fa spesso, una lettera ufficiale indirizzata alla squadra di casa (reale!) con l’esortazione a non tradire le aspettative. Non avrebbe forse fatto meglio l’anziana sovrana a scrivere un’analoga lettera di raccomandazione ai sudditi che dagli spalti dello storico stadio di Wembley, quando hanno visto le brutte, non si sono trattenuti dal lanciare cori razzisti contro i loro stessi giocatori, bianchi di maglietta ma neri di pelle? 

Questo è successo prima della partita. E dopo? Ancora peggio. Pur giocando in casa, dinanzi ad un pubblico di tifosi al novanta per cento inglesi, (gli italiani erano il dieci per cento) la nazionale britannica ha clamorosamente perso l’incontro. E al termine, mentre le due squadre sfilavano per la premiazione, una medaglia per tutti, vincitori e vinti, il pubblico se n’è andato a smaltire a casa la delusione lasciando deserto uno stadio che fino a pochi minuti traboccava di entusiasmo. Anche i principi reali, William, la moglie Kate e il principino George (sacrificato in giacca e cravatta regimental come il giorno della prima comunione) hanno partecipato allo sgarbo filandosela appunto all’inglese senza salutare, e tanto meno congratularsi, come avrebbe imposto il galateo prima che il cerimoniale, il presidente Mattarella che sedeva nella tribuna degli ospiti. Ciliegina sulla torta della volgarità britannica: i giocatori inglesi che ricevevano dal responsabile dell’Uefa la medaglia del secondo posto se la toglievano immediatamente dal collo in segno di disprezzo per un riconoscimento che erano convinti di non meritare. Fair play è una locuzione inglese che in ambito sportivo significa comportamento corretto e leale con l’avversario, e in due parole vuol dire anche “saper perdere”. Cosa che stavolta gli inglesi hanno evidentemente dimenticato. 

 Vincitori detestati a Wembley, i nostri campioni si sono rifatti in patria: partiti in piena notte insalutati ospiti sono arrivati a Fiumicino alle prime luci dell’alba accolti dai più mattinieri fra i nostri tifosi e l’indomani sono stati ricevuti al Quirinale dal capo dello Stato e a palazzo Chigi dal capo del governo. Mattarella l’aveva detto prima della finalissima: qualunque sia il risultato riceverò la squadra per ringraziare giocatori e dirigenti di essere arrivati alla finale. E con i calciatori ha voluto anche ringraziare Matteo Berrettini, il giovane tennista romano che a Wimbledon non aveva vinto ma si era coperto ugualmente di gloria arrivando a giocare su un celebre campo dal quale gli italiani mancavano da anni. 

Vincitori (nel calcio) e vinto (nel tennis) tutti uniti nel riconoscimento solenne da parte delle nostre maggiori autorità. Al confronto, l’ineffabile premier britannico Johnson ha infilato una figuraccia dopo l’altra: la prima quando ha accolto all’arrivo a Londra il presidente Mattarella con un sonoro “Forza Italia!”, un’esortazione alla nostra squadra di calcio o un richiamo al partito di opposizione? In entrambi i casi una gaffe; l’ultima, quando ha annunciato ancora prima della finale che l’11 luglio sarebbe stato proclamato nel Regno Unito festa nazionale. E così ai suoi ingenui connazionali ha inflitto, oltre alla beffa per non aver vinto, anche il danno di dover andare a lavorare l’indomani della più brutta domenica inglese dai tempi della guerra. Il suo illustre predecessore Winston Churchill, che pure agli inglesi aveva chiesto “lacrime e sangue”, ma per una causa ben più importante di una partita di calco, non si sarebbe sbilanciato (e non avrebbe infiocchettato di bandierine l’austero numero 10 di Downing Street). Ma è bene che sia andata così: soffiare la coppa europea di calcio agli inglesi che dall’Europa se ne sono andati sbattendo la porta è stata cosa  buona e giusta. Anche molto divertente. 

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